Università e dintorni : il testamento spirituale del medico

 

Sergio Stagnaro

(Tratto dal Volume “Itinerario della mia vita”)

 

 

Dal 1951 al 1956 frequentai la facoltà di Medicina dell’Università di Genova, con sede a San Martino, dove mi sono laureato, senza infamia e senza lode, con 104 su 110.

 Secondo l’antico adagio Chi ben comincia è a metà dell’opera al mio favorevole inizio seguirono sei anni di studi, caratterizzati da lievissime alternanze di periodi di vacche grasse e vacche magre. Prima di tutto sento il dovere di dire, non di consigliare, ai giovani studenti, universitari e non, che per ottenere riconoscimenti dai docenti è certamente indispensabile studiare con metodo, giorno dopo giorno, ma è oltremodo raccomandabile essere presenti in aula, cioè farsi vedere dall’insegnante, e prendere appunti di quanto và dicendo, che non sempre è reperibile nei sacri testi. Così facendo, chi studia entra nella visione del mondo del suo docente, che, quasi sempre, non è la migliore, ma aiuta certamente a superare brillantemente l’esame.

 Per quanto, invece, riguarda l’inevitabile arricchimento culturale, lo studente, assimilata correttamente la Weltanschaung del docente, deve sottoporre a critica severa quanto ha imparato e, formatasi una personale opinione, accettarla con la stessa forza con cui bisogna dubitare della sua validità. La scienza è stata descritta come “ scetticismo organizzato”, una realtà in cui nulla si deve accettare senza sottoporlo a domande.

 A me pare di avere illustrato con chiarezza il mio pensiero, corroborato da una lunga esperienza, che si può così riassumere: seguire possibilmente le lezioni, apprendere nel modo migliore l’opinione dell’insegnante, utile, almeno, per superare l’esame nel modo migliore, ed infine sottoporre il tutto alla più severa delle critiche, conservando il dubbio più atroce su quanto è riuscito provvisoriamente a filtrare attraverso la critica severa.

Durante gli anni universitari ho conosciuto un buon numero di ottimi docenti, pronti a confrontarsi con le idee altrui,  anche se erano in contrasto con le loro, e discuterle serenamente e criticamente, manifestando il loro onesto comportamento nel voto finale. Erano docenti che miravano a formare gli allievi, piuttosto che ad informare, in modo che rimaneva nei discepoli, la necessaria forma mentis per diventare dei veri medici. Nonostante la tirannia del tempo trovavano il necessario ritaglio per discutere i nostri problemi e fugare i nostri comprensibili fraintendimenti.

Tra tutti quei docenti è presente nei miei occhi, nel mio cuore e nella mia memoria il Prof. Alessandro Antognetti, clinico medico, scienziato ed umanista, mio Maestro, al quale devo l’amore per la Medicina, che si è conservato, sempre vivo, durante quarantaquattro anni di professione come medico di medicina generale nel mio paese. L’amore, che ancora nutro sinceramente per lui, ha il senso del termine greco-aurorale di µgaph, inteso come trasporto interiore alla persona, che comprende e supera l’apprezzamento e la stima per le qualità o attributi dell’individuo o filia, e riguarda, nel mio caso, la persona in sé ed è privo di qualsiasi valenza morale. Si tratta di amore immediato e duraturo, che ha sede nell’anima, che da questo amore è spinta a spirituali riflessioni, che innalzano un ponte tra il finito e l’infinito, tra natura e grazia.

 Dice una famosa canzone: “E’ fortunato chi ha avuto per maestro uno che gli ha fatto vedere l’alba dentro il tramonto.”

Io sono fortunato, perché ho imparato a lottare, senza tregua o pericolosi cedimenti, quando le mie idee nuove e le teorie audaci, sottoposte al vaglio della critica aspra, risultavano, al momento, corroborate. E questo per merito del mio Maestro, spirito irripetibile, a proposito del quale posso dire ciò che vado sostenendo dal giorno della laurea anche per quanto riguarda l’amico carissimo Prof. Alfredo Obertello, umanista, studioso di valore mondiale della letteratura inglese del periodo Elisabettiano, del quale parlerò più avanti, con le parole di Theodor W. Adorno, che era pieno di ammirazione per Walter Benjamin: “Chi entrava in conoscenza con lui si sentiva un bambino che scorga, attraverso le fessure della porta chiusa, la luce dell’albero di Natale. Ma la luce,  in quanto luce della ragione, prometteva al contempo la verità stessa, non il suo impotente riflesso.”

Quando non abbiamo ancora vent’anni, non sempre siamo dotati di quella intuizione che avverte la presenza di un grande evento, che non dovrebbe sfuggirci mai  e restare così nella nostra memoria per sempre. Ho detto memoria e non ricordo, poiché il ricordo sfuma ed annega nella nostalgia, mentre la memoria è rivivere ciò che è da sempre presente: nella memoria è la nostra misura e la nostra felicità.

Di seguito e subito prima del racconto, desidero trascrivere la lettera del dott. Angelo Olivieri, noto medico di Sestri Levante, che esercitò la professione fino agli anni ’70. Questo scritto mi è stato di notevole aiuto e conforto, in quanto racchiude in sé l’esperienza di una vita intelligente ed aperta al nuovo, che Aristotele definì jronhsis, saggezza di vita. Ho sempre giudicato questa lettera il testamento spirituale del Medico.

 

Il 22 Nov.1956.

Caro collega,

Ho ricevuto la tua partecipazione di laurea. Bravo Sergio! Hai così finito, e ora dovrai purtroppo cominciare. Ho detto purtroppo, poiché se vi è una professione, la quale metta in vibrazione le corde più sensibili dell’anima umana e più inspiri alla virtù del dovere, od esiga più pronta la velocità di azione, e grandi la presenza di spirito e il coraggio, ed eserciti, fino all’ultimo limite, la pazienza, è precisamente quella che hai prescelto, che si annovera, per modo di dire, fra le così dette professioni libere, ma che in realtà è quella, che nel nome supremo del dolore, e del più nobile altruismo, è resa quasi continuamente schiava della volontà altrui!

Per esercitarla, per svolgere con coscienza il più umano tra i compiti dell’uomo nella società, bisogna mettere, accanto al fardello del sapere, una larghissima, una inesauribile dose di altruismo e di idealismo.

Fin dai primi passi dell’esercizio professionale,incontrerai scoramenti profondi, acuta delusione, brutali forme dell’ingratitudine umana.

Ma la nostra professione è resa mobilissima da un fine, che niun’altra eguaglia, il nostro è un ministero che trae dall’esaudimento  “ usque ad finem”, del suo compito, il supremo fra i diletti della coscienza, e basta, dopo una battaglia vinta, un po’ di gratitudine, per sanare offese, e accendere di maggiore entusiasmo la nostra idealità.

Con tanti auguri.

E con tanta cordialità a te e ai tuoi genitori.

Tuo

        Angelo Olivieri.

 

Nel  racconto che segue è descritta la singolare e traumatica circostanza  per cui io sono diventato medico, in verità non per vocazione e neppure per libera scelta. Col senno di poi, debbo ammettere che il buon Dio ha avuto pietà di me. (Il racconto si trova nel sito con il titolo “Solo, in una carrozza di seconda classe su un binario morto”)