Una storia in due
Ismaele


Anna la mattina si alza presto per preparare il caffè.
Michele invece indugia di più sotto le coperte, ma soltanto qualche minuto.
Da quando è andato in pensione, da vice direttore dell’ufficio esattoriale, avrebbe voluto, come ha immaginato per quarant’anni, poltrire fino a tardi, ma non c’e’ niente da fare.
La pigrizia è una vocazione. Ci vuole un talento speciale, lui semplicemente non ce l’ ha.
Maria, l’unica figlia li ha lasciati da un paio d’anni, per sposarsi. E’ andata a vivere lontano.
Hanno riacquistato la dimensione della solitudine, e la calma.
Michele, si è messo a costruire un tavolino, per ingannare il tempo, adesso lo vede lì, fuori sul balcone, non gli viene neanche bene, ma ci passa i pomeriggi. Coltiva anche un orticello, le mani affaticate gli impediscono di pensare.
Le giornate sono diventate lunghe.
Anna invece ha imparato a guardare le telenovelas in tv e un po’ se ne vergogna, ma si appassiona alle storie dei personaggi, qualche volta ci piange.
Dalle finestre incorniciate dalle volte rotonde, si vede tutto il vecchio quartiere, i tetti illuminati dal sole.

-Michè, ti fa ancora male?
-Zitta, pare di no. Si solleva a sedere, una smorfia.
-Sì, ti fa male ancora. Perchè non vai dal dottore?
-No, non è niente, ribatte lui con aria seccata, è l’artrosi.
-Ma sono più di dieci giorni…vacci!
-Sono otto. E poi……… buono quello! Mai che ti dà una medicina. Parla, parla e poi te n’esci senza niente in mano. L’altra volta sono dovuto andare dal farmacista.
-Vabbè, ma tu, vacci lo stesso, per piacere…

Michele annuisce, mentre con la mano, le fa cenno di chetarsi.

-Dopo compra il pane, se fai in tempo…
-Va bene!

Dopo il caffè esce, rabbrividendo nell’aria fredda di dicembre. Pero’ c’e’ il sole.
Passa sotto l’arco del vicolo, nel vecchio quartiere, una volta abitato dai nobili. Ci passavano le carrozze, sotto quell’arco di pietra. Poi le automobili lo hanno trasformato in un borgo fantasma.
Passa davanti ai bei portoni, alle grate di ferro battuto delle finestre a piano terra, che d’estate, attirano qualche turista.
Lui non li vede più da anni, o forse non li ha mai visti, sin da quando, scalzo, correva su quelle pietre lisce.
Pensa a Maria, alla figlia lontana e non si capacita di come possa essere così cresciuta così presto, in un breve battito di ciglia.
Pensa anche con un po’ di rimorso a come sia stato sempre severo con lei, sicuramente troppo. Perchè a lasciare fare Anna… alza le sopracciglia….. gliele avrebbe date vinte tutte! Ma poi sorride. Sa che Maria lo ha capito e poi con il tempo, lo ha apprezzato.
Ecco la sagoma del postino, che arranca, soffiando per lo sforzo.
-Buongiorno, Michè.
-Buongiorno Vincè. Hai posta per me?
Tono di speranza nella voce.
-No, mi dispiace. Ma poi, il telefono non ce l’hai? Che dice Maria?
-Sta bene, grazie. Forse c’e’ un nipote in arrivo!
-Auguri!
-Statti bene!

Man mano che cammina, il dolore scompare, come la voglia di stare a sentire quell’asettico medico, pronto sempre a dare consigli piuttosto che rimedi. Ci sono persone che quando ci parli ti sembra di essere arrivato con un attimo di ritardo e persone con le quali hai l’impressione che qualcosa stia appena per accadere e sara’ qualcosa di buono. Quel medico apparteneva alla prima categoria, ed era il suo futuro buio.

-Oggi non ci vado. Si dice.

Il vicolo si apre nella piazzetta del lavatoio. Una fontana con una cascatella che cade nella conca di pietra settecentesca. Le donne ci lavavano i panni e ridevano, quando da giovane, passava nella piazzetta. Le sentiva cantare di lontano.
Un ragazzo è seduto sul bordo, si guarda in giro. Con la mano accarezza l’acqua.
Michele non lo conosce, lo guarda e vede lo zaino a terra. E’ vestito come usa oggi, sembra un militare. Il solito escursionista che va sulla montagna.
Ha un’aria vagamente familiare. Si solleva, si spolvera e gli chiede la strada.
Michele gliela indica con un sorriso.

Aprile 1944. Il battaglione di Michele, si trasferisce. C’e’ aria di mobilitazione, le voci corrono tra i soldati.

-E’ finita!
-No…… adesso ci sono i tedeschi.
-Macchè, sono nostri alleati!
-Non più, svegliati!

Sono duri da passare, sei anni. Rancio, disciplina e paura. Il suo è un buon gruppo, si può fingere che la guerra non ci sia, tra gli scherzi e le risate . Anche quando le bombe che cadono e illuminano la notte sembrano tanti fuochi artificiali come la notte della festa di S. Marcellino.
Ti ci abitui, a tutto ti abitui, appena riesci a classificare a mettere le cose al loro posto.
La banda lo sfotte un po’, perchè si isola, se ne va da solo e scompare sempre.
Ma lo rispettano e gli vogliono bene, perchè è uno che ha studiato.
Come quando a Napoli si è perso dietro ad un’idea, seguendo un impulso irresistibile, ed è tornato in caserma la sera. Lo hanno protetto e non se n’e’ accorto nessuno.

******

Michele ha un cruccio nell’anima. Non lo ha detto a Maria, non lo ha detto a nessuno. Le analisi che ha fatto, dicono che c’e’ qualcosa di sbagliato nei globuli rossi o qualcosa del genere.

-Signor Michele, e’ una malattia importante, ma noi la combatteremo. Dovremo fare dei controlli… forse dovro’ farla ricoverare.
-Ma guariro’?
-Non lo so, nessuno lo sa.

Strano. Perche’ non si era spaventato? Perche’ non aveva provato sgomento a quella rivelazione?
Aveva, nei giorni successivi, con una dolcezza che gli era sconosciuta, preso a ricordare e rivivere gli avvenimenti della sua tranquilla, piacevole esistenza.
Se ne era stupito il dottore, apparso prima sconcertato, poi sollevato. Aveva sorriso, e gli aveva detto:

-Non perdiamoci di vista, mi raccomando!

******

Il bordello di una città violentata, con gli americani che urlano e ridono, pieni di whisky, sigarette e cioccolata.
Si ricorda una strada, la polvere e il rumore ovattato e il silenzio terribile che si avverte sempre dopo un bombardamento.
Una donna seduta, con un bambino in braccio, un insieme confuso di polvere e sangue.
La donna lo culla dolcemente. Piange con un gemito lungo e continuo, con gli occhi velati come quelli di un animale ferito e parla alla piccola cosa con le scarpe rotte che gli sta abbandonata sulle gambe.
-Sient’ a mammà, tu nun m’a fa mettere a’ ppaura. Pecchè nun viene quann' te chiamm, vuo' juca’ sempe cu ll’amice tuoie?
Così, per ore.
Il cuore di Michele era pesante. Non era stato facile, convincerla ad abbandonare la scena.

-Coraggio, vai a casa…per piacere. Azzarda con timidezza, toccandole una spalla.

Uno sguardo stupito, attonito, lo fissa, come se avesse detto, da troppo lontano, qualcosa di strano, incomprensibile.

-Nunn’ a tengh’ cchiu’…La voce è atona. Poi l’urlo e un pianto disperato.

Se pensa a prima, quando era un ragazzo che non poteva resistere senza ridere se lo si guardava negli occhi, si sente come se avesse mille anni.
Non riuscirà mai più a ridere come prima.
Domani si parte, forse Roma.
Ed ora, quel paese verde, tranquillo, che non sembra neanche sfiorato dai rumori della guerra.
Gli appare nuovo e fresco e il pensiero si perde dietro all’immagine di vite tranquille e indipendenti, indifferenti ed impermeabili al suo destino.
Vorrebbe fermarsi qui. Fantastica di metter su famiglia, magari in una delle piccole case di quel vecchio quartiere.
Segue la stradina che costeggia il torrente e si ritrova in una piazzetta con una fontana. Una ragazzetta con una cesta di biancheria bagnata lo vede e fugge via veloce.
Appoggia lo zaino militare, si siede sul bordo, immerge la mano nell’acqua. E’ cosi’ trasparente, che le dita sembrano più grandi e limpide che attraverso l’aria.
E l’acqua non si ferma mai.
Pensa a Maria, alle sue lettere che gli arrivano censurate da quelle sbarre scure.
Le notizie dal paese sono pericolose? E per chi?
Osserva la scalinata del vicolo che gli sta di fronte e vede una persona anziana che scende a passo svelto e lo guarda. Si alza e gli va incontro.
Ha un’aria stranamente familiare, gli sorride.

-Buongiorno! Dov’e’ che si passa, per salire sul monte?