Il solitario
Francesco Gugliotta
Era vero.
Le sue papille olfattive, quella sera , a causa del freddo invernale, avevano
apparentemente subito una paralisi e, indovate nelle sue fosse nasali,
sembravano cristallizzate; tuttavia le vibrisse, di cui era abbondantemente
dotato, si proiettavano prepotentemente sull’uscio delle narici e, rigirandosi a
destra e a manca (alla stregua dei granchi marini che con le chele sollevate sul
corpo ronzano alla ricerca perenne di cibo), annaspavano intorno, quasi in un
momento preagonico, nel bisogno di cogliere nell’aria qualche molecola vagante
di feromoni femminili che in quel grigiore serale potessero di riflesso
rendergli tumide le vergogne.
Niente di tutto ciò: la realtà era più deprimente: il suo volto, segnato da
sofferenze fisiche e soprattutto morali, elargiva una tristezza kafkiana e una
ragion pura kantiana che talora lo stuzzicava a porre rimedi definitivi alla sua
esistenza. Con la scusa però che il suo modello preferito fosse la Smith e
Wesson, introvabile sul mercato delle armi,con atavica vigliaccheria, riprendeva
il corso della sua grigia esistenza, fino alla successiva puntata.
Quella sera era lì, lungo quella strada ricca di rumori, di ronzii di motori, di
voci sperdute nel vento, lungo quella strada che lo portava al cimitero, nel
senso però che essa strada era quella che conduceva al Cimitero dei Rotoli.
Incollato al marciapiede osservava passivo ( forse era diventato integralmente
passivo) il fluire delle auto che proiettavano prepotentemente la luce dei fari
sulla sua spettrale figura, facendo intravedere in un brevissimo istante di
tempo la delicatezza dei suoi lineamenti, la sua fronte spaziosa bucherellata e
incespugliata da cocci e croste di varia dimensione, unica consolazione
mangereccia nei momenti di magra fisici e spirituali, un naso adunco, prepotente
e curioso, unico cimelio alle sue follie sessuali, una montatura di occhiali di
un trentennio antecedente, una di quelle che usava l’armatore Onassis allorche’
si esibiva ( proprio così .. col …membro) davanti a Jakeline elevando sublimi
note del tipo: “ guarda come dondolo, guarda come dondolo con il twist…(non
aveva possibilità di fare altro !!!).
Ultimo particolare era rappresentato da due occhi che si difendevano dietro
quegli occhiali da beccamorto assatanato di sesso, occhi accesi, vivi, pronti a
cogliere uno sguardo, ad assecondare un sussurro, a visionare un corpo
statuario, a spogliare ( impudico !) barbaramente vestigia adolescenziali e non
; e forse il ‘non ‘era l’appannaggio maggiore che lui rivolgeva a settantenni,
canute con parrucchino biondo, cui contrastava una inesorabile secchezza
vaginale che gli procurava, nei folli amplessi, atroci lesioni da taglio tali da
richiedere indennita’ medico legali con cospicui risarcimenti.
Lui era lì immobile ,come il leone nella prateria, con i muscoli tesi, agonisti
e antagonisti; il risultato era un sommatoria eguale a zero e quindi lui non si
muoveva. Ma tutto vibrava in lui consapevole che qualcosa comunque sarebbe
successo; in effetti di lì a poco le vibrisse rotearono vertiginosamente avendo
percepito che qualcosa nell’aria si era mossa; rimase tuttavia deluso giacche’
al posto dei soliti feromoni, aimè di molto, molto, antica memoria, avvertì il
caldo odore del pane appena sfornato. Non indugiò un istante e, raccogliendo
quel poco di idee residue dedusse che era più utile in quel frangente procurare
una sazietà al suo famelico bisogno alimentare e che non era più opportuno
perder tempo. Si avvio’ con passo sicuro al panificio di fronte e dopo aver
pagato alla cassa si sistemò bene bene sotto l’ascella sei parigini di 60 cm per
10 che cominciò a smembrare dalla punta ancor prima di uscire dalla bottega e a
portare alla bocca con gesti rapidi, voluttuosi e comunque riservati, di
fantozziana memoria..
Dopo aver divorato in pochi attimi un kg e mezzo di pane,come era ovvio ( ma lui
non riusciva a percepirlo mentalmente), avvertì ciò che normalmente viene
definita sete. Con lo sguardo aquilino che lo distingueva, scrutò l’orizzonte,
ruotando lentamente il volto alla ricerca di qualche locale idoneo a smorzare i
morsi della sete.
A circa cinquanta metri vide ( o meglio intuì o percepì) la luce violenta di un’
insegna luminosa che prepotentemente con bagliori accecanti e intermittenti dava
a intendere che là si beveva, ma si beveva birra! Avvertì un sano senso di
soddisfazione per la consapevolezza di essere sempre baciato dalla fortuna,
soprattutto quando essa lo coinvolgeva in soddisfacimenti corporali come quelli
che si stavano verificando.
Entrò in quel locale senza tanto curarsi della trasandatezza e della scarsa
igiene che a prima vista tangibilmente avrebbe fatto inorridire chicchessia ma
egli fermamente deciso, con i cinque parigini a tracolla ( il primo aveva
rappresentato un timido antipasto), si avviò rapido al bancone, gestito da un
omaccione tutto barba e baffi incolti, con un gran sigaro puzzolente alla cui
estremità si teneva ancora in equilibrio un bel tratto di cenere che sballottava
alle imprecazioni verbali di quell’ossesso, per nulla contento di come andassero
gli affari in quella plumbea serata.
L’oste non appena lo vide si rincuorò ed emise un gravido colpo di tosse,
sputacchiando a destra e a sinistra e facendo dissolvere in mille frammenti la
cenere del suo sigaro, che alla stregua della candida farina che si fa cadere
dal cielo sul presepe la notte di Natale, prese ad avvolgerlo, carezzandolo
dolcemente. Lui non si scompose e anzi, ritenendo di trovarsi finalmente (come
peraltro tante volte aveva desiderato) in un classico pub all’inglese, cominciò
ad emettere sillabe nella lingua di quella onorata nazione, gustando con piacere
l’idea di potersi confrontare con quell’oste così classico,cosi “in”.
L’individuo in questione prese allora a osservarlo in un primo momento con
perplessità poi con un certo fastidio e non sapendo dire altro, recitò:”Bah, vu
parrari potabile?”che tradotto voleva significare: vuoi parlar chiaro? Egli
rimase deluso e dopo aver chiesto della birra della migliore marca, accettò con
allegria il destino che aveva stabilito tutto. Difatti il barista ,con la scusa
che non aveva la confezione piccola gliene diede una di tre quarti di litro e
gliene regalò un’altra di egual misura, adducendo che a parte tutto (gli occhi,
la pancia,lo sguardo,l’andatura, i filoni sotto braccio, le scarpe) gli era
stato subito simpatico.
Ringraziò con la signorilità che lo contraddistingueva, mortificata purtroppo da
un involontario peto che gli era sfuggito sul nascere allorché si era rigirato e
aveva amplificato la falcata, roteando l’anca più del necessario.
L’oste stavolta lo inseguì ma nulla potè contro i passi rapidi del suo
antagonista che si dissolsero e scomparirono rapidamente nel buio di quella
malinconica sera.
Raggiunse in breve tempo un tratto deserto di marciapiede quasi di fronte
all’Ospedale ove ( per modo dire) prestava la sua dignitosa funzione di medico.
Al di la dell’Ospedale vi era il mare che si intuiva appena per qualche strano
riflesso che di tanto in tanto si poteva osservare in lontananza.
Si appollaiò su una grossa pietra con i cinque parigini e le due birre grandi.
Da quel momento iniziò un gran fracasso: ora appariva una macchina da guerra,
una locomotiva da “Orient Express”, un tritacarne gigante ritmico e puntuale (da
orologio svizzero),un compressore ad energia atomica e il tutto era interrotto
da scrosci di birra, voraci e voluttuosi che si disperdevano nelle sue fauci, da
gorgoglii,e da erutti alla Polifemo che, rivolti al cielo, parevano esprimessero
l’eterno dilemma con l’Altissimo: ma che ci stiamo a fare in questa terra? ; a
volte apparivano melodici, quasi musicali e si accompagnavano a sensazioni di
trionfale benessere e tale deduzione si poteva intuire osservando il candido
sorriso di compiacimento delle sue gote, l’ eccezionale midriasi delle sue
pupille, il viso rivolto verso il Creatore nell’atteggiamento di chi domanda al
Cielo: ma perché sono nato?!.
La catarsi, la purificazione eseguita con pane e birra stava avviandosi al suo
culmine: davanti a se immaginava il mare e ogni qualvolta il suo volto, ormai
rubicondo, si attaccava con la bocca alla seconda bottiglia di birra (la prima
si era dissolta in poche frazioni di secondi), si immaginava dondolante su quel
mare, adagiato su una zattera con a fianco una delle sue antiche passioni: Anna,
Camilla, Eustorgia, Felicina, Feliciana, Feliciotta, Iachina e Bagascia( di
lontana e adolescenziale memoria); tutto gli appariva una musica lontana, appena
sussurrata, suadente, rilassante. Il suo corpo ora appariva
etereo,leggero,volava,volava, si librava nell’aria come le ali di una cicogna.
Lui intuiva finalmente, capiva, lui veniva da lì, dalla cicogna, ecco spiegato
quell’arcano, lo aveva portato la cicogna e lui ora volava,volava.
Volò troppo giacchè invece di andar su, a causa dei fumi dell’alcool non si rese
conto che non volava ma che invece stava battendo la testa sul selciato. Si
rizzò immediatamente in preda al dolore che apparve insignificante rispetto a
quello che stava avvenendo: Erano apparsi due finanzieri che con robuste braccia
lo trattenevano, non per prestargli soccorso, ma per contestargli il fatto che
avesse abbandonato illecitamente l’Ospedale ove stava effettuando il suo turno
di servizio pomeridiano, quale medico di reparto.
La tragedia ebbe altri seguiti: per l’abbandono del posto di lavoro gli venne
comminata una multa pari alla buona uscita che di lì a poco avrebbe percepito,
giacchè aveva deciso di mettersi in pensione.
Ben più tragico l’ultimo atto:continuando ad andare in Ospedale, dopo qualche
giorno fu convocato dal Direttore Sanitario che,dispiaciuto, gli comunicò il suo
futuro destino.
Alle sette in punto di ogni giorno nel suo inappuntabile abito di portantino di
8’ categoria, portandosi appresso una scopa, non quella volgare di una volta
fatta di legno e di arbusti raccolti con anonimi lacci ma di un elegante tubo
luccicante e platinato con alla estremità variopinte strisce sottilissime di
plastica, andava per parchi all’interno dell’ospedale per scopare i viali,
ripulendoli dalle residue ingiallite foglie autunnali, e dai consunti
fazzolettini di carta delle coppiette che tra una visita e l’altra ai parenti,
attendevano l’orario di entrata in effusioni di antica memoria.
Continuò così per parecchio e ogni giorno la sua mente rifletteva intensamente
ma alla fine giungeva sempre alla medesima conclusione:’Alla fin fine , fin dai
tempi della goliardica giovinezza non avevo sempre desiderato di …scopare?’