IL SOGNO
L’allegro e ritmico scalpitio degli zoccoli del
cavallo annunciava anche quella mattina il ripetersi del rito settimanale che
da tempo era appannaggio delle abitudini della Signora.
La carrozza
guidata sempre dal medesimo cocchiere,dopo aver prelevato la nobildonna, attraversava il tratto che dalla Stazione
Centrale scende per Via Roma e successivamente risale per Via Vittorio
Emanuele, in su ,fino ad arrivare all’incrocio con la Via Matteo Bonelli. In quel tratto, stupefacente come sempre ,si
ergeva nella sua magnificenza la Cattedrale di Palermo con il maestoso e
solenne profilo,con l’enorme orologio, con il giardino antistante stracolmo di
fiori, di colori, di profumi e con il flusso regolare e ordinato dei pellegrini
e dei gruppi di turisti di tutte le nazionalità, il cui unico scopo, oltre quello artistico, sembrava fosse quello
di fotografare tutto il possibile e nel
minor tempo possibile.
Anche quel mattino la carrozza, puntuale, si fermò
davanti ai cancelli dell’ingresso per consentire alla passeggera di scendere.
Con gesti misurati ed eleganti la Signora,
poggiando leggiadramente il piede sullo scalino della carrozza, scese
lentamente e con passo deciso si avviò
verso la porta della Cattedrale. Il suo portamento era austero, il passo
elegante; indossava un abito semplice, di colorito viola pallido, ad ampie
pieghe che al docile vento del mattino liberavano timidi svolazzi, dando un
tocco di leggerezza alla sua persona; il
volto offriva i retaggi di una bellezza lontana ma ancor viva che riviveva più
splendente nell’abbozzo di un sorriso che accompagnava il suo incedere.
Nel breve tratto di strada che percorreva le capitava, a volte, di fermarsi un istante ed eseguire un gran respiro, quasi un misto di compiacimento e di bisogno fisico di respirare quell’aria ebbra dei profumi che le numerose varietà di fiori del giardino emettevano al pari di una musica delicata e penetrante.
Si avviava con passo deciso, con incedere sicuro,
pur nella precarietà dei tacchi delle sue eleganti e raffinate scarpe che
riuscivano non senza difficoltà a mantenerla in equilibrio.
Al suo apparire l’atmosfera dei presenti
improvvisamente diventava solenne, quasi che tutti fossero consapevoli dello svolgersi di quel rito settimanale e ne aspettassero la
conferma.
Lei portava con se una borsetta molto piccola
stretta tra il braccio sinistro e il petto mentre con la mano destra tratteneva
tra le dita una rosa non vera ma artefatta che emanava un intenso profumo e
provvista di un colore che virava tra il
verde dello stelo e il rosso viola dei petali. Tenendo tra le dita quel fiore
artificiale con tanta attenzione si
avviava, ogni volta, verso l’ingresso della Cattedrale, accompagnata dallo
sguardo curioso della folla quotidiana.
Entro’ in Chiesa, e dopo il segno
di croce, attraversò la lunga navata centrale e compiuto un altro breve
tragitto si ritrovò il complesso monumentale della tomba del grande Federico
II. Dopo alcuni momenti di meditazione pose la rosa con estrema delicatezza
sulla superficie del freddo marmo , accompagnando il gesto con una espressione
seria, quasi sofferente del volto; era riuscita anche quel giorno a presentarsi
puntuale, lì dove giacevano le spoglie di quell’uomo illustre, amatissimo e odiatissimo,gran condottiero, raffinato amatore,uomo
misericordioso e spregiudicato, colto e rozzo,dispensatore di bene e feroce
avversario.
I suoi resti erano lì, al riparo, in quella Cattedrale, adagiati su una tomba
dentro la quale non proveniva nulla del vecchio mondo esterno, fatto di
tragedie, di passioni, di vite tormentate. Vi penetrava però, in quell’attimo,
nell’attimo di quel rito cadenzato e puntuale, il profumo di quella donna, lo
spirito di quella Signora e soprattutto la passione che quella Signora
esprimeva con uno sguardo penetrante verso
i regali resti di quel grande uomo che lei non aveva mai conosciuto, ma
che sentiva di amare con tutto l’ardore possibile.Ella non amava una persona,
amava uno spirito e a volte, nel chiuso della sua stanza, il pensiero di lui
aveva un effetto inebriante, quasi la sensazione di essere fisicamente
posseduta.
Quel giorno si accinse ad uscire dalla Cattedrale e
ad avviarsi in direzione della carrozza; al contrario delle altre volte, lo
fece con andatura lenta e con espressione turbata sul volto. Non appariva come sempre quando, dopo
la visita al ‘suo Federico’, ritornava sui suoi passi
serena e gratificata. Cosa mai succedeva ? Il rito era stato consumato ma
appariva insoddisfatta e la sua espressione contrariata: rifletteva in se
quanto avesse potuto desiderare di conoscere di persona quel gran
Condottiero,vincitore di molte battaglie, apprezzato e stimato per le sue doti
di uomo contornato da un alone di
regalità e di rispetto.
Avvertiva verso quest’uomo, che da tempo turbava i
suoi sogni, un trasporto assolutamente naturale,quasi che potesse esserci nel
suo DNA qualche traccia genetica da ricondurre a qualche antenata che forse
aveva conosciuto- chi sa- il glande Federico II (in tutti i sensi).
Tornò a casa convinta che quell’ennesimo incontro
avrebbe procurato per tanti giorni e
tante notti emozioni sicuramente più forti di quelle sinora avvertite.
Giunta a casa, esauriti gli impegni familiari, si
avviò in giardino, come era solita fare, per ammirare i suoi fiori,aspirarne
gli intensi profumi e salutare affettuosamente i suoi tre cani. In periodi
precedenti li aveva raccolti randagi; li aveva ben curati e li aveva adottati
tenendoli definitivamente in giardino.Erano tre tutti bastardi e , allorché
ella appariva, guaivano per la gioia,scodinzolavano, strofinavano i loro musi
sulle sue gambe e le regalavano baci sotto forma di tenere leccate. Il più
grande si chiamava Max ed era quasi
tutto bianco con qualche chiazza marrone sparsa sul corpo ; il secondo Joe ed era un bel bastardo caffellatte, il terzo Arindi era ancora un
cuccioletto dagli incerti natali con un pelo lungo chiazzato bianco e nero che
rivestiva interamente il suo corpo e che nel muso stranamente si arricciava in
una posa grottesca.Rappresentavano un riferimento affettivo molto importante,
erano in un certo senso la compagnia sincera e disinteressata che le riempiva
la giornata dopo aver sperimentato un’esistenza assai poco gratificante. Ne
scaturiva che il suo Federico II e i suoi cani erano la più importante ragione
di vita e lei ne era appagata.
Però quella sera….
Quella sera non riuscì a cenare e dopo un lungo
passeggiare avanti e indietro per tutta
la casa, ormai stanca per un esercizio non abituata a compiere e peraltro con
la prospettiva poco gratificante di un imminente temporale che di li a poco si
sarebbe scaricato sulla villa, pensò bene di andare a dormire. La luce fioca
dell’abatjour, come sempre succedeva, avrebbe dovuto conciliarle il sonno, ma
quella sera il pensiero ossessionante di
Lui, associato al rumore delle imposte che battevano sotto l’effetto di un
violento vento di tramontana e alla pioggia che scrosciava abbondante, le
impediva di prender sonno. Si girava e rigirava sul letto con gli occhi che le
si sbarravano specie quando intravedeva l’ondeggiare delle tendo sotto l’impeto
del vento; ascoltava tremante il suo sibilo minaccioso, poi udiva il miagolio del gatto e in lontananza il
guaito dei cani spaventati dall’improvviso bagliore dei fulmini, dal rombare
squassante dei tuoni, dalla tintinnio frenetico della grandine.
Si alzò, cominciò ad attraversare avanti e indietro
la stanza, turandosi con le palme delle mani le orecchie per non sentire, poi
improvvisamente uscì dalla camera da letto per andare ad aprire la porta che
dava sul giardino e consentire in tal modo
ai cani di entrare. Li chiamò ripetutamente ma la sua voce si spegneva e si annullava
inghiottita dalla moltitudine e dall’intrecciarsi di tutti quei rumori.
Stravolta, ritornò in camera e si buttò pesantemente
sul letto; di li a qualche istante la stanchezza fisica e l’angoscia lasciarono
il posto ad un sonno improvviso e
agitato. Girava frequentemente la testa sul cuscino, chiudeva e apriva
nervosamente le mani, il suo corpo sussultava al rumore dei tuoni, talora emetteva
dei gemiti dalla bocca e lentamente inesorabilmente si mise a
sognare…Sognare….Sognare…
In quel cocuzzolo che aveva raggiunto con tanta
fatica vide in lontananza la figura di Lui, il ‘suo’ Federico II; egli in lontananza saliva spavaldo, da gran
condottiero, velocemente, con un ardore
e un desiderio da tempo sopito scavato sul volto. A volte per un istante
si fermava, sollevava lo sguardo verso di lei e sorrideva,
sorrideva….sorrideva…
Raggiunse rapidamente il punto ove lei con ansia lo
aspettava: si incrociarono gli sguardi, si sorrisero entrambi, lui le cinse la
schiena, lei le mise un braccio sulla spalla in felice abbandono. Lui la prese
in braccio e la adagiò sul prato; rapidamente tolse quei pochi abiti che aveva
e le sue labbra andarono rapide alla ricerca del suo corpo. Lei era inebetita
dal piacere inebriante e coinvolta , nel sogno, con le sue mani lo toccava, lo
cercava. Fu un lampo:ebbe una sensazione bellissima, le sue dita stringevano la
carne tumida, calda e circondata da riccioloni…., strinse,….strinse…. più
forte…sempre più forte….
Un feroce latrato eccheggiò
nella stanza: il muso di Alindi (che nel frattempo
era riuscito a ripararsi in camera da letto) stropicciato, mal menato e
arrossato lo aveva costretto a quel guaito
di disperazione nel tentativo che la sua padrona mollasse la preda.
Da quel giorno non vi tornò più !