IL SOGNO

 Francesco Gugliotta

 

 

L’allegro e ritmico scalpitio degli zoccoli del cavallo annunciava anche quella mattina il ripetersi del rito settimanale che da tempo era appannaggio delle abitudini della Signora.

 La carrozza guidata sempre dal medesimo cocchiere,dopo aver prelevato la nobildonna,  attraversava il tratto che dalla Stazione Centrale scende per Via Roma e successivamente risale per Via Vittorio Emanuele, in su ,fino ad arrivare all’incrocio con la Via Matteo Bonelli. In quel tratto, stupefacente come sempre ,si ergeva nella sua magnificenza la Cattedrale di Palermo con il maestoso e solenne profilo,con l’enorme orologio, con il giardino antistante stracolmo di fiori, di colori, di profumi e con il flusso regolare e ordinato dei pellegrini e dei gruppi di turisti di tutte le nazionalità, il cui unico scopo, oltre  quello artistico, sembrava fosse quello di  fotografare tutto il possibile e nel minor tempo possibile.

Anche quel mattino la carrozza, puntuale, si fermò davanti ai cancelli dell’ingresso per consentire alla passeggera di scendere. Con gesti misurati ed eleganti la Signora,  poggiando leggiadramente il piede sullo scalino della carrozza, scese lentamente  e con passo deciso si avviò verso la porta della Cattedrale. Il suo portamento era austero, il passo elegante; indossava un abito semplice, di colorito viola pallido, ad ampie pieghe che al docile vento del mattino liberavano timidi svolazzi, dando un tocco di leggerezza alla sua persona;  il volto offriva i retaggi di una bellezza lontana ma ancor viva che riviveva più splendente nell’abbozzo di un sorriso che accompagnava il suo incedere.

Nel breve tratto di strada che percorreva le capitava, a volte, di fermarsi un istante ed eseguire un gran respiro, quasi un misto di compiacimento e di bisogno fisico di respirare quell’aria ebbra dei profumi che le numerose varietà di fiori del giardino emettevano al pari di una musica delicata e penetrante.

Si avviava con passo deciso, con incedere sicuro, pur nella precarietà dei tacchi delle sue eleganti e raffinate scarpe che riuscivano non senza difficoltà a mantenerla in equilibrio.

Al suo apparire l’atmosfera dei presenti improvvisamente diventava solenne, quasi che tutti  fossero consapevoli dello svolgersi  di quel rito settimanale e ne aspettassero la conferma.

Lei portava con se una borsetta molto piccola stretta tra il braccio sinistro e il petto mentre con la mano destra tratteneva tra le dita  una rosa non vera ma  artefatta che emanava un intenso profumo e provvista di  un colore che virava tra il verde dello stelo e il rosso viola dei petali. Tenendo tra le dita quel fiore artificiale con tanta attenzione  si avviava, ogni volta, verso l’ingresso della Cattedrale, accompagnata dallo sguardo curioso della folla quotidiana.

Entro’ in Chiesa, e dopo il segno di croce, attraversò la lunga navata centrale e compiuto un altro breve tragitto si ritrovò il complesso monumentale della tomba del grande Federico II. Dopo alcuni momenti di meditazione pose la rosa con estrema delicatezza sulla superficie del freddo marmo , accompagnando il gesto con una espressione seria, quasi sofferente del volto; era riuscita anche quel giorno a presentarsi puntuale, lì dove giacevano le spoglie di quell’uomo illustre, amatissimo e odiatissimo,gran condottiero, raffinato amatore,uomo misericordioso e spregiudicato, colto e rozzo,dispensatore di bene e feroce avversario.

I suoi resti erano lì, al riparo, in  quella Cattedrale, adagiati su una tomba dentro la quale non proveniva nulla del vecchio mondo esterno, fatto di tragedie, di passioni, di vite tormentate. Vi penetrava però, in quell’attimo, nell’attimo di quel rito cadenzato e puntuale, il profumo di quella donna, lo spirito di quella Signora e soprattutto la passione che quella Signora esprimeva con uno sguardo penetrante verso  i regali resti di quel grande uomo che lei non aveva mai conosciuto, ma che sentiva di amare con tutto l’ardore possibile.Ella non amava una persona, amava uno spirito e a volte, nel chiuso della sua stanza, il pensiero di lui aveva un effetto inebriante, quasi la sensazione di essere fisicamente posseduta.

Quel giorno si accinse ad uscire dalla Cattedrale e ad avviarsi in direzione della carrozza; al contrario delle altre volte, lo fece con andatura lenta e con espressione turbata sul  volto. Non appariva come sempre quando, dopo la visita al ‘suo Federico’, ritornava sui suoi passi serena e gratificata. Cosa mai succedeva ? Il rito era stato consumato ma appariva insoddisfatta e la sua espressione contrariata: rifletteva in se quanto avesse potuto desiderare di conoscere di persona quel gran Condottiero,vincitore di molte battaglie, apprezzato e stimato per le sue doti di uomo contornato da un  alone di regalità e di rispetto.

Avvertiva verso quest’uomo, che da tempo turbava i suoi sogni, un trasporto assolutamente naturale,quasi che potesse esserci nel suo DNA qualche traccia genetica da ricondurre a qualche antenata che forse aveva conosciuto- chi sa- il glande Federico II (in tutti i sensi).

Tornò a casa convinta che quell’ennesimo incontro avrebbe  procurato per tanti giorni e tante notti emozioni sicuramente più forti di quelle sinora avvertite.

Giunta a casa, esauriti gli impegni familiari, si avviò in giardino, come era solita fare, per ammirare i suoi fiori,aspirarne gli intensi profumi e salutare affettuosamente i suoi tre cani. In periodi precedenti li aveva raccolti randagi; li aveva ben curati e li aveva adottati tenendoli definitivamente in giardino.Erano tre tutti bastardi e , allorché ella appariva, guaivano per la gioia,scodinzolavano, strofinavano i loro musi sulle sue gambe e le regalavano baci sotto forma di tenere leccate. Il più grande si chiamava Max ed  era quasi tutto bianco con qualche chiazza marrone sparsa sul corpo ; il secondo Joe ed era un bel bastardo caffellatte, il terzo Arindi  era ancora un cuccioletto dagli incerti natali con un pelo lungo chiazzato bianco e nero che rivestiva interamente il suo corpo e che nel muso stranamente si arricciava in una posa grottesca.Rappresentavano un riferimento affettivo molto importante, erano in un certo senso la compagnia sincera e disinteressata che le riempiva la giornata dopo aver sperimentato un’esistenza assai poco gratificante. Ne scaturiva che il suo Federico II e i suoi cani erano la più importante ragione di vita e lei ne era appagata.

Però quella sera….

Quella sera non riuscì a cenare e dopo un lungo passeggiare  avanti e indietro per tutta la casa, ormai stanca per un esercizio non abituata a compiere e peraltro con la prospettiva poco gratificante di un imminente temporale che di li a poco si sarebbe scaricato sulla villa, pensò bene di andare a dormire. La luce fioca dell’abatjour, come sempre succedeva, avrebbe dovuto conciliarle il sonno, ma quella sera  il pensiero ossessionante di Lui, associato al rumore delle imposte che battevano sotto l’effetto di un violento vento di tramontana e alla pioggia che scrosciava abbondante, le impediva di prender sonno. Si girava e rigirava sul letto con gli occhi che le si sbarravano specie quando intravedeva l’ondeggiare delle tendo sotto l’impeto del vento; ascoltava tremante il suo sibilo minaccioso, poi udiva  il miagolio del gatto e in lontananza il guaito dei cani spaventati dall’improvviso bagliore dei fulmini, dal rombare squassante dei tuoni, dalla tintinnio frenetico della grandine.

Si alzò, cominciò ad attraversare avanti e indietro la stanza, turandosi con le palme delle mani le orecchie per non sentire, poi improvvisamente uscì dalla camera da letto per andare ad aprire la porta che dava sul giardino e consentire in tal modo  ai cani di entrare. Li chiamò ripetutamente ma  la sua voce si spegneva e si annullava inghiottita dalla moltitudine e dall’intrecciarsi di tutti quei rumori.

Stravolta, ritornò in camera e si buttò pesantemente sul letto; di li a qualche istante la stanchezza fisica e l’angoscia lasciarono il posto ad un sonno improvviso e  agitato. Girava frequentemente la testa sul cuscino, chiudeva e apriva nervosamente le mani, il suo corpo sussultava al rumore dei tuoni, talora emetteva dei gemiti dalla bocca e lentamente inesorabilmente si mise a sognare…Sognare….Sognare…

In quel cocuzzolo che aveva raggiunto con tanta fatica vide in lontananza la figura di Lui, il ‘suo’  Federico II; egli  in lontananza saliva spavaldo, da gran condottiero, velocemente, con un ardore  e un desiderio da tempo sopito scavato sul volto. A volte per un istante si fermava, sollevava lo sguardo verso di lei e sorrideva, sorrideva….sorrideva…

Raggiunse rapidamente il punto ove lei con ansia lo aspettava: si incrociarono gli sguardi, si sorrisero entrambi, lui le cinse la schiena, lei le mise un braccio sulla spalla in felice abbandono. Lui la prese in braccio e la adagiò sul prato; rapidamente tolse quei pochi abiti che aveva e le sue labbra andarono rapide alla ricerca del suo corpo. Lei era inebetita dal piacere inebriante e coinvolta , nel sogno, con le sue mani lo toccava, lo cercava. Fu un lampo:ebbe una sensazione bellissima, le sue dita stringevano la carne tumida, calda e circondata da riccioloni…., strinse,….strinse…. più forte…sempre più forte….

Un feroce latrato eccheggiò nella stanza: il muso di Alindi (che nel frattempo era riuscito a ripararsi in camera da letto) stropicciato, mal menato e arrossato lo aveva costretto a quel guaito  di disperazione nel tentativo che la sua padrona mollasse  la preda.

Da quel giorno non vi tornò più !