La " Posta" alla Lepre e la Luna crescente-calante

Antonio Raimondi


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" Una sera io e il cacciatore Ermolaj ci recammo " all'aspetto "…Ma, forse, non tutti i miei lettori sanno cosa sia "la caccia all'aspetto" Allora ascoltate signori.
Un quarto d'ora prima del tramonto, in primavera,entrate in un boschetto con il fucile,senza cane.Vi cercate un posticino sul limitare della boscaglia,vi guardate intorno, controllate la capsula della cartuccia, scambiate strizzatine d'occhio con il compagno.E' passato un quarto d'ora. Il sole è tramontato, ma nel bosco c'è ancora luce; l'aria è limpida e trasparente;gli uccelli cinguettano ciarlieri; l'erba tenera brilla del vivido splendore dello smeraldo…Aspettate, l'interno del bosco si oscura piano, piano; il color porpora del crepuscolo serale scivola lentamente sulle radici e sui tronchi degli alberi; sale sempre più su, passa dai rametti bassi,ancora spogli, alle immobili cime sonnacchiose.Ecco che anche le cime sono offuscate; il cielo rossastro s'incupisce. L'odore del bosco diventa più penetrante, soffia appena appéna una tiepida umidità; il vento, penetrando nel bosco si acquieta intorno a voi.Gli uccelli si addormentano, non tutti all'improvviso ma secondo le varie specie: ecco che tacciono i fringuelli , dopo qualche istante i capirossi, poi i verdoni.Il bosco si rabbuia sempre più.Gli alberi si confondono in compatte masse nereggianti; sul cielo azzurro spuntano timidamente le prime stelline.Dormono tutti gli uccelli.Fischiettano sonnacchiosi solo i codirossi e i giovani picchi.Ma ecco che anche loro si zittiscono.Ancora una volta ha risuonato sopra di voi il trillo sonoro del beccofino; da qualche parte s'è udito l'urlo mesto del rigogolo e il primo gorgheggio dell'usignolo. Il vostro cuore langue nell'attesa, quando all'improvviso- ma solo i cacciatori mi potranno capire-, all'improvviso nella quiete assoluta si levano un fischio ed un gracchiare del tutto particolare,si ode il battito cadenzato di agili ali e una beccaccia,inclinando leggiadramente il lungo becco, abbandona dolcemente in volo la scura betulla per venire incontro al vostro sparo ".
I Turgheniev: Memorie di un cacciatore

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"…e la campagna la conosco così bene che posso ripensarla ad occhi chiusi, essere presente in essa ovunque sorga un suono, fucilata o latrato.Vedo cespugli che mi ricordano la caccia mattutina alle tortore o la silenziosa ricerca della pernice , che fa tra le stoppie un canto sommesso, una serie di piccoli baci scoccati nel palmo della mano.Il fumo della locomotiva, che ora è bianco, si rovescia sulla siepe e inumidisce le larghe pale verdi dei fichidindia, copre cespugli che riemergono poi come scogli da cui si ritiri l'ondata; e fila di uccelli grossi e scuri si levano ordinatamente e piegano verso l'ombra dei colli mostrando nella larga virata il petto bianco come la spuma di un'onda…"
G. Dessì: San Silvano 
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"…la lepre intanto, che se l'era svignata con un bell'anticipo orientava le lunghe orecchie ai rumori già sulla cima di un colle, nel viottolo nascosto tra le felci, dove al lume di luna aveva pasturato e ballato ogni notte.Non se lo ricordava, ma ci aveva anche lasciato le caccole.Era tranquilla, perché dà fiducia il luogo dove s'è sempre stati bene…" 
E. Bertozzi: Argo
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I passatempi di una volta dopo gli estenuanti periodi di fatica nei campi, erano la frequentazione della cantina e la caccia. A Trebisacce si annoveravano famosi cacciatori che oggi sono entrati nella leggenda della nostra modesta storia paesana. Tra questi Cjicchjill', 'u Scjianacchji', 'u Ferr' ,Tramuntan', Chidichimo. La loro fama era dovuta, oltre alle leggendarie gesta venatorie, sopratutto al modo segreto ed unico di prepararsi le cartucce, artigianalmente, nell'angolo più nascosto delle loro povere case.Un giorno, come a volermi iniziare a questa antica arte, mio padre mi fece provare il piacere ed il brivido di una posta notturna alla lepre. In una meravigliosa notte di plenilunio,senza preavviso, come finii i compiti e " a curt'" 'j mangjà" mi disse di prepararmi perché mi avrebbe portato con sé.Ricordo che, come me lo disse, provai una gioia immensa perché mi faceva partecipare ad un'attività che era ritenuta da" persone grandi".Assistetti, con interesse e curiosità, al rito della vestizione, al riempimento della cartucciera, con cartucce adatte alla preda,alla sua "oliatura" con la nafta prima che con gesto usuale per lui se lo mettesse a tracolla sulla spalla. Un "due botte" a canne parallele che aveva portato dalla Grecia, dove durante la guerra era stato prigioniero insieme allù bànarm' 'j Falùcc' 'j Parrott' quello di' "tavùt'"( cassa da morto).Tempo ed attenzione erano dedicati,dunque,sopratutto alla scelta delle cartucce che infilava poi una alla volta a secondo del numero, dopo averle soppesate, nella cartucciera, ognuna al posto giusto.Poi riempì uno" stjavucc'"( tovagliolo) di croccanti taralli e " cannarjcolj"(biscotti) di casa e li affidò alla mia custodia per avere libere le sue braccia, pronte ad imbracciare il fucile.Fu così che alle prime ombre della sera ci mettemmo in cammino e prima di giungere al posto prestabilito, attraversammo campi appena mietuti che odoravano di stoppie, il letto del saraceno che "cantava" con le sue acque impetuose , i pendii delle colline grigie per gli oliveti.Ricordo le loro foglie fruscianti al vento di scirocco, che portavano alle mie orecchie ancora le grida maldicenti dei " massari" contro le donne vestite perennemente di nero e gobbe di fatica .Narravano, a me fanciullo, la loro infanzia comprata con un pugno di olive "morte" lungo i solchi fangosi dei declivi di oliveti secolari e rinsecchiti dalle intemperie. Era una piccola festa delle cose della natura che mi facevano contento.Mi sarei fermato volentieri in quel posto per raccogliere con serena malinconia il dolce divagare dei miei pensieri di adolescente.Tutto il paesaggio aveva un'aria di innocenza povera e raccolta.Ci inerpicammo lungo un'antica mulattiera, ai cui lati si susseguivano" mùcch' e macch'" ( arbusti del sottobosco), e dove ogni tanto si sentiva il rumore frusciante di una lucertola o di un serpente.Io mi immergevo in quella solitudine ,in cui si sentivano ancora i muli soffiare e battere gli zoccoli, i ragli degli asini trascinati a forza dalla cavezza.In queste certezze i miei pensieri si spegnevano. Camminavo lentamente per quel sentiero che ora saliva ed ora scendeva,accompagnato dal canto assordante di decine di cicale, dal monotono ronzio delle api e dal ciarliero fruscio delle foglie cadute.Mi sentivo immerso in un sogno, in un altro mondo, in un altro tempo. Nell'aria di tanto in tanto mi avvolgeva l'odore pungente del timo e del rosmarino. Dopo il tramonto, raggiungemmo il luogo prestabilito con la luna ormai chiara che illuminava a giorno la radura.Mio padre quella notte sembrava preoccupato per la luna, che dava l'impressione di consumarsi in cielo senza un lamento. Così gli venne una voglia dolorosa di bestemmiare per cercare di fermare quella lampada triste che si rimpiccioliva sempre più.Il presentimento che quella sera andasse male, il senso di un pericolo oscuro che avesse messo in guardia la lepre, lo spingeva a trattenere anche il respiro. Nascosti nel " pagliaro " in precedenza preparato con rami di macchia appoggiati al tronco incavato di un secolare "garrùpo", aspettavamo il passaggio della lepre.Raccontavano i vecchi cacciatori che la lepre con il plenilunio trascurava la sua prudenza proverbiale, esponendosi così più facilmente al mirino del fucile, dove in genere con un colpo di " sputacchia " vi si attaccava un pezzo di cartina.Intanto arrivavano dalla vicine masserie, i latrati dei cani che annusavano nell'aria la presenza di volpi. Abbaiano alla luna,di cui hanno timore, finché il suo viso corrucciato non tramonta, vinta dal sonno, dietro il disco di fuoco del sole e del nuovo giorno. E mentre la nostra luna si faceva sempre più bella e conturbante come un'amante maliziosa, ecco che la lepre ammaliata dalla sua luce argentea, esce dalla sua tana. Ingenua, lei che per natura non lo è , senza meditare, senza assicurarsi che il sentiero che percorrerà fosse sgombro,si offre novella "Ifigenia" al suo carnefice di turno: il fucile di mio padre. Nonostante, l'ora tarda e tormentato dal sonno, la vedo stagliarsi con la sua raffinata eleganza sul piccolo sentiero. Stordita dal chiarore lunare, si sposta sulla radura alla ricerca di cibo, rizza le orecchie senza convinzione, come per abitudine, per carpire il rumore dei suoi naturali nemici. Senza la sua famosa cautela si avvicina, innocente,al tiro del fucile già spianato e con il cane alzato. Dopo essersi pulita il muso con le zampe anteriori, esce senza sospetto allo scoperto ed a tiro. Mio padre guarda la cartina di sigaretta sul mirino del fucile,mi tocca e con lo sguardo mi invita perfino al silenzio del respiro.La posta è contro vento; nascosto dietro una grossa spina" tjirra", sorprendo mio padre in estasi di fronte alla sua innocente preda. Imbracciato il fucile,come se tenesse sul petto un bambino, lo punta , 
guarda per un attimo la luna come per ringraziarla della sua complicità, scruta la linea d'ombra dell'orizzonte,aspetta ancora un attimo calcolando con la mente la distanza,quindi preme il grilletto. La lepre vede prima un lampo, poi sente uno scoppio, ed infine non avverte più niente.Rimane ad occhi aperti come aveva l'abitudine di fare nel sonno. Non vede più immagini del suo mondo: i cespugli di rosmarino che nascondevano la sua tana, i dolci tramonti delle gole del saraceno,i cespugli di querciolo sui declivi dei dirupi, la zolla morbida umiliata dal piede dell'uomo. Su di essa cresceva quell'erba fine e vellutata come il suo manto, che tante volte aveva brucato, la rupe bianca a fiore di terreno da dove aveva scrutato i suoi atavici nemici. Nell'attesa di raggiungere la preda, mio padre, si arrotola una sigaretta,ingoia un sorso di anice , e pensa ai giorni spesi alla sua ricerca. Ogni qualvolta la localizzava con l'aiuto del cane, senza vederla ma solo avvistando la "trica". La prendeva tra le mani esperte, e ne apprezzava la consistenza per decifrare il tempo del suo passaggio. Quella splendida notte la lepre fu trafitta dai colpi di due botte successive e secche, la cui eco si propagò lungo il letto del saraceno fino al mare, con cui nel frattempo la luna,piena di vergogna, si stava per abbracciare e scomparire. Pensando, a torto, che la notte senza di lei fosse un libro senza luce, e non un libro ricamato di stelle, sciolse solo una lacrima di compassione per quella creatura tradita. 
Mio padre,della caccia ,amava gli spazi aperti,la luce rosata dell'alba e del tramonto,i silenzi,le attese.Mi insegnò a tirare il grilletto, a modulare la voce per imitare il "richiamo" degli uccelli.Con lui conobbi le bellezze incantate delle nostre colline ricoperte di fitti boschi di pini ed i suoi abitanti: il pastore, il massaro, il carbonaio,il boscaiolo, il mulattiere.Il pastore davanti all'aia riempiva il trogolo di legno con l'acqua, dove le pecore si dissetavano alla fine del pascolo. A sera davanti al "jiazzo" ( recinto) le mungeva con arte sapiente ed antica ed il latte strizzava nel secchio, mentre dal camino della masseria usciva sempre più denso un fumo con un odore di zuppa di cavoli. Nei giorni passati seguendo il fiuto di " Gessetto", il cane da caccia e la "trjica" ( cacca) fresca lasciata dalla lepre, camminavamo per sentieri non più battuti dagli uomini. Sbucando un giorno in una radura al centro di un fitto bosco di querce incontrammo l'ultimo dei carbonai: Ugolino soprannominato " Sjicond'. Riforniva di carbonella di macchie i "bracieri" di tutto il paese ,caricandosene grossi sacchi sulle possenti spalle.Un fitto sottobosco delimitava lo spiazzo della carbonaia. Il silenzio del luogo incitava al raccoglimento e ne partecipava il motivo, mostrando un presepio di pace: una casetta di paglia e canne che parlava col sole in un mare di verde,un'edera immensa abbarbicata ad una vecchia quercia e nel folto della sua chioma ci volavano e facevano il nido gli uccelli e ci cantavano tranquilli il merlo,il nobile gallo cedrone,la bonaria beccaccia , la tortora e l'affaccendata pernice ,che con il suo impetuoso colpo d'ala rallegra e spaventa il cacciatore e il cane …Intanto la pioggia ed il vento mormoravano preghiere per quel sacco di peli e di ossa steso per terra. Aleggiava nell'aria un volo di speranze tradite.La vera passione, comunque,anche se non è da assecondare sempre va ascoltata altrimenti non ti lascia in pace.Ecco perché quando arrivava la stagione propizia, mio padre andava a caccia.Aspettava nella "posta"ore ed ore immobile,incurante di tutto.In quei momenti scrutava la sua fanciullezza ormai dimenticata,incontrava il dolore degli uomini del suo tempo. I suoi pensieri segreti si trasformavano in preghiera o in bestemmie.Il silenzio del bosco era allora la verità per l'Uomo; oggi non si riesce più a gustarne il valore. Anche la parola quella sera, nata da un'intensa esperienza di travaglio interiore, era linguaggio fecondo di silenzio, espressione eloquente del mistero della coscienza. L'anima ,quando si lascia attrarre dall'arcano,non sa dire nulla se non offrire il silenzio del cuore ricco di amore e di passione per il confronto con la Morte.La Verità di quell'incontro tra l'uomo e la sua preda innocente è testimoniata dallo stupore della Natura e dal silenzio della Divinità. L'uomo è chiamato a confrontarsi con la sua morale:creatura in ogni frammento della sua storia, cammina nella speranza di riconquistarla , con il tentativo di riguadagnarla con la pace dei luoghi dell'infanzia,la sola in grado di rendere giustizia al suo desiderio di Infinito .L'Amore è vissuto in una dimensione che è in bilico tra il sogno e il ricordo di una religiosità primitiva, innocente,profonda. e perduta .Oggi il disincanto dell'Uomo di fronte al senso del divino e del religioso ha fatto perdere gli strumenti per decifrare e capire il" rossore " complice e pudico della Luna. Perdendo il significato del linguaggio religioso della Natura, trasformandolo in ritualità sacrale, l' Uomo ha rinunciato per sempre a quel soffio di Eternità che è la Vita.