UN ORDINARIO GIORNO DI LAVORO

Francesco Gugliotta


Era un febbraio di qualche anno fa. Un pomeriggio di quelli grigi  e opachi, come solo il mese di Febraio può offrire all’immaginazione.

Al mattino, da solerte e  rigoroso medico della mutua, avevo snoccialato la mia serie di ricette per patologie amene e quant’altro, avevo visitato qualche paziente, avevo ricevuto Informatori Medici,mi ero guadagnato insomma la pagnotta sul campo.

Avevo anche ricevuto notizie allarmanti su un mio paziente, affetto da nefropatia ipertensiva, già in terapia dialitica, che era ulteriormente peggiorato e per il quale rimanevano scarsissime possibilità di sopravvivere. Ero francamente addolorato perché, peraltro,mantenevo con lui un buon rapporto, basato sul  rispetto e sulla  stima vicendevole

Il pomeriggio dello stesso giorno la notizia mi colse mentre  stavo effettuando delle viste a domicilio: egli era da poco deceduto nel reparto di emodialisi dell’Ospedale e di lì a poco, lo avrebbero portato in camera mortuaria.

Promisi a me stesso che dopo le visite sarei andato a vederlo per dargli l’estremo saluto.

E così avvenne.

Giunto in Ospedale mi diressi rapidamente alla camera mortuaria constatando peraltro che, data l’ora tarda, avrei dovuto chiedere al custode il permesso di entrare. La porta di accesso difatti era chiusa e nella stanzetta adiacente il custode, visibilmente rilassato, si stava gustando un programma televisivo. Con aria di circostanza, mi qualificai e chiesi se eccezionalmente mi avesse potuto consentire di vedere il mio paziente. Il Custode frettolosamente si assicurò, controllando il registro, che il paziente deceduto si trovasse in una delle stanze e avutone conferma, mi indicò il numero della stanza.

Entrai in un corridoio completamente deserto, illuminato da una fioca luce che ancor più mi procurava tristezza e mi faceva riflettere sui dolori del mondo e sulla stranezza della vita.

Percorsi il corridoio per due volte e infine riuscì a scorgere la stanza indicatami. La porta era chiusa e, con la disinvoltura che l’arte medica in decenni di lavoro mi aveva plasmato,  girai la maniglia ed entrai chiudendo la porta dietro di me.

Nella stanza, anch’essa fornita di scarsa luce,giaceva su un freddo marmo il paziente. Era solo, disteso su una fredda lastra di marmo; ai piedi un mazzo di fiori erano il temporaneo e amorevole omaggio ad una vita stroncata dalla malattia.

Mi misi ad osservarlo. Era ordinatamente composto, avvolto in quelle tuniche che mettono ai degenti in reparti speciali. Il suo volto inespressivo mostrava un mento non rasato, due baffi incolti e ispidi, due occhi completamente chiusi e, cosa per me alquanto strana, mi accorsi che calzava sulla testa un berretto di lana blu che sulle prime mi lasciò perplesso ma che in seguito ritenni che gli era stato messo da qualche parente per ripararlo dal freddo, quando ancora era in reparto.

Lo guardai con molta compassione e sulle prime rimasi attonito ,riflettendo quanto avesse potuto soffrire negli ultimi istanti; ripercorrevo l’inizio di quel rapporto professionale e poi il lungo calvario suo e della sua famiglia  e consideravo con dispiacere la sorte di quest’uomo che aveva lavorato tutta la vita per sfamare la famiglia, i sacrifici, le rinunce e tutto senza mai mostrare scontentezza e infelicità. Era un figlio della terra, aveva vissuto la sua vita e la terra se lo riprendeva, con largo anticipo, perché così, mi ostinavo a pensare, andava il  mondo.

Di tanto in tanto davo una sbirciata un pò più attenta nel tentativo innocente di riconoscere i suoi tratti somatici e.. un po’ per la luce fioca, un po’ per quel berretto di lana ben calcato sulla fronte , mi venivano in testa dei dubbi subito fugati dalla consapevolezza che su indicazione del custode mi ero diretto nella camera giusta. In uno di questi momenti ricordo di aver aperto ala porta per cercare di vedere qualche indizio sulla generalità del defunto. Poi ritornai vicino a lui e quasi con un senso di colpa la mia Laicità venne sconfitta dalla vecchia Fede ed ecco che mi misi a sussurrare un Padre Nostro per lui.

Si ma Lui era sicuramente Lui ? La voragine del dubbio mi assali e allora dedussi che il dubbio l’avrei risolto chiedendo altre notizie al custode;  fu gentilissimo ma nel rivedere l’elenco dei deceduti prese atto che aveva mal interpretato il cognome e che l’interessato ancora non era nella camera mortuaria ma che sarebbe giunto di li a poco.

Avevo sbagliato ’CATAVERO’ ( in italiano: cadavere).

Fui colto da un ridicolo imbarazzo, considerando che per un buon quarto d’ora ero stato li a fare il …cascamorto ad un povero tizio che non conoscevo nemmeno.

Sgattaiolai in men che non si dica fuori da quel triste posto ma non potei trattenere per me un franco sorriso, denigratorio della mia malcapitata innocenza.