CORRENDO A PIEDI SULLE NUVOLE
Sergio Stagnaro


Vicino ormai al suo compimento, il mattino dell’ultima domenica primaverile del lontano 1947 era rassegnato a cedere il posto ad uno splendido pomeriggio. Superate lentamente due curve a S e lasciato definitivamente alle spalle il paese, un mesto corteo procedeva a passo insolitamente svelto in direzione della breve ma ripida salita, che tuttora conduce al cimitero del mio paese, al lato sud della ferrovia. Pensai che, percorrendo così velocemente il tratto pianeggiante, quel traballante veicolo avrebbe affrontato con maggiori possibilità di successo l’ultima fatica. In realtà, l’ansimante motore, un residuato bellico, lasciava chiaramente presagire che aveva i giorni contati anche lui. Di lì a poco, tuttavia, constatai che il mio pensiero era ben lontano dall’adequatio rei et intellectus, tanto cara al solito Aristotele ed al più giovane Alfred Tarski. Strada facendo, provavo una piacevolissima sensazione di sicurezza e di pace, forse derivata dal fatto che tenevo in mano, secondo commissione, uno dei quattro neri ed enormi fiocchi del carro mortuario. Infatti, pensavo, se ad un certo punto della funebre cerimonia o della triste liturgia, ansiosamente vissute nella mente per due lunghi giorni, mi fosse capitato di svenire - evento in realtà per me tutt’altro che insolito - il tonfo non mi avrebbe procurato gravi danni fisici, in precedenza già sperimentati, seguiti dalla generale apprensione dei presenti. Per una consolidata esperienza sapevo che, quando non facevo colazione, vuoi per fretta o per altri motivi, come accadde quel mattino, frequentemente venivo colto da uno strano malessere, scatenato dal lavoro muscolare, accompagnato da abbondante sudorazione, da uno stato psichico più confuso del solito e dalla tipica visione del mal di mare, che si prova nelle calde ore d’estate quando si vede "ballare la vecchia". Era sufficiente un po’ di cibo, preferibilmente dolce, perché tutto svanisse come l’alba allo spuntare del sole. A 16 anni non sapevo nulla della ICAEM-alfa, della crisi ipoglicemica e della sua complessa etiopatogenesi.

La presenza dei giocatori e del CT dello S.C. Riva Trigoso - allora si chiamava Aurora - mi rese assai contento; per quanto ragazzo, sperimentavo il bene originato dalla solidarietà umana e dall’amore per il prossimo. In verità, erano molti quelli che accompagnavano mio nonno paterno, Celestino, all’ultima dimora, dimostrando così la loro stima, rispetto e gratitudine. Il nonno, che aveva abbondantemente superato gli ottanta anni, era scarno in volto, di statura media, con un ciuffo di candidi capelli bianchi sempre ben ordinati, baffi e pizzetto di neve, due occhi neri e profondi, che rivelavano una eccezionale saggezza di vita. Come dice Adorno nel saggio su Benjamin Walter, chi riusciva a sintonizzarsi con il suo animo si trovava nella situazione di un fanciullo, che intravede, attraverso le fessure di una porta chiusa, la luce dell’albero di Natale; non si tratta certamente della Verità, ma di un piacevolissimo riverbero.

Mi tornava alla mente il giorno in cui due alti funzionari delle Poste e Telecomunicazioni di Genova gli comunicarono solennemente che era stato insignito della Croce di Cavaliere del Lavoro per avere, a sue spese, installato il primo ufficio P.T. a Riva Trigoso. Citato il Metastasio, la cui opera conosceva a memoria, "Quando nacqui mi disse una voce - tu sei nato per portare la tua croce. - Poi guardai, guardai, guardai, tutti portano la croce quaggiù", mio nonno, che non soltanto guardava ma vedeva, come pochi ormai sanno fare, con irrevocabile decisione rifiutò la seconda croce.

Finalmente raggiungemmo il cimitero, dove rapidamente terminò la mesta cerimonia, con una giusta dose di lacrime. Gli amici dell’Aurora si strinsero intorno a me, affettuosamente ma non disinteressatamente, mentre dirigenti e C.T. parlavano sottovoce con mio padre, che molto stranamente acconsentiva sempre, tanto da far sorgere in me fondatissimi dubbi sul suo stato di salute. Alla fine mio padre disse: "Per me và bene, se lui è d’accordo... non ha ancora assaggiato cibo..." e di peso fui portato via...

Sul difficile campo della Lavagnese, nel pomeriggio, un calcione, senza cattiveria giuntomi sullo stinco sinistro e di cui ancora oggi porto evidenti segni, ci permise di vincere il campionato ragazzi, con i due punti guadagnati.

Infatti, fermatomi a centro campo per fasciare il qualche modo la ferita abbondantemente sanguinante, il mio angelo custode - un centromediano alto 1,90 con una stazza da corazziere del Presidente - mi lasciò tranquillamente incustodito, nel momento in cui, sulla fascia sinistra, la nostra modesta ala stava compiendo l’unica splendida azione portata a termine nella sua vita: giunta velocemente sul fondo, palla al piede, alzando la testa e vedendomi giungere in corsa dalle retrovie ha crossato in modo impeccabile al limite dell’area di rigore avversaria. Saltai più alto del portiere, leggermente in ritardo, grazie al mio metro ed ottantaquattro, colpii secondo arte e mandai il pallone nell’angolo alto alla mia destra. E fu il trionfo... I compagni mi saltarono addosso e mi buttarono a terra, tra l’applauso del foltissimo pubblico, che attendeva l’incontro Lavagnese-Pavia. "Hai visto, scemo, non volevi giocare... senza di te non avremmo vinto...". Pensai "No, non senza di me, ma senza di lui..." e mi misi a piangere. Mi riportò alla realtà un paio di scapaccioni, prima alla nuca e poi sul fondo schiena, assestatimi dall’amico centromediano del Lavagna, rude e possente quanto onesto; a modo suo si complimentava per il gol, che, molto giustamente, secondo lui era da attribuire alla mia assoluta freschezza in quanto non mi aveva fatto giocare una sola palla in tutta la partita... Ridendo ed abbracciati corremmo al centro campo, sollecitati dall’arbitro.

Sono certo che, testardo come nessun altro, si allena per futuri incontri, correndo a piedi nudi sulle nuvole.