E CONTINUAMMO A CHIAMARLO MARX

Sergio Stagnaro


Un pomeriggio primaverile del 1958, Maria, 78 anni bene castigati, mi informò in ambulatorio che il marito Mario, soprannominato Marx per evidenti motivi ideologici, in trattamento presso un neurologo di Genova, dopo giorni di allarmante nervosismo ed inconsueto mutismo, le aveva rivolto infondate accuse di tradimento in manifesto disaccordo con i personali dati anagrafici. La povera donna non riusciva a trattenere le lacrime, dignitosamente asciugate con un candido fazzoletto stirato a puntino. Addolorato, osservavo in silenzio la singolare creatura seduta di fronte a me e tanto cara a tutta la mia famiglia.

Dal giorno in cui mi sono trovato sulla terra senza averne fatto richiesta ed ho aperto gli occhi per la prima volta, naturalmente urlando e piangendo disperatamente, Maria e Mario diventarono anche per me persone familiari e preziose.

Maria da giovane era bellissima con quel suo volto da Madonna del Perugino. Ora i suoi capelli, come sempre bene ordinati, avevano il colore bianco splendente delle penne dei gabbiani, che in quel pomeriggio di primavera perfezionavano felici i loro voli spericolati sul mare sonnolento, sotto i caldi raggi di un sole curioso e preoccupato, ora scendendo velocemente in picchiata con le ali vicine al corpo, ora risalendo agevolmente verso un azzurro, limpidissimo cielo, profumato di salsedine.

La casa di Maria, modestamente arredata, era fissa dimora per l’ordine, la pulizia e il gusto; da sempre io ero un ospite gradito.

Non posso dimenticare i consigli di pratica saggezza, le ben dosate raccomandazioni per me fanciullo e l’amore di Maria e Marx per le piccole e grandi cose, che è poi la gioia di vivere o la fede. Quanti ricordi stimolati da quelle lacrime, si rincorrevano limpidi e rapidi nella mia memoria: il profumo dolcissimo del timo nella biancheria stirata e l’odore fine delle mele carle stese sopra una candida tela in un angolo del sobrio salotto.

 Per i miei religiosi genitori il buon Dio aveva commesso un grave errore negando a Maria il dono della maternità. ”Il Signore mi ha già fatto un regalo bellissimo: ho incontrato e sposato Mario. Dalla vita non posso pretendere nulla di più gradito...”, ripeteva Maria ed il suo volto si illuminava di contagiante felicità.

 Marx era veramente un bell’uomo: due grandi occhi, neri come i folti capelli pettinati all’indietro secondo la moda di allora, la fronte spaziosa, espressione della sua viva intelligenza; alto, con i muscoli poderosi dell’ex atleta; un cuore d’oro; era sempre pronto al sorriso e sapeva cogliere il lato dionisiaco in tutti gli aspetti della vita.

Terminati gli studi liceali, decisi di appendere al proverbiale chiodo le scarpe con i “tacchetti”; Marx fu l’unico dirigente della società che comprese la mia sofferta e a lungo meditata decisione: “Sei un bravo figliolo, fai bene a dedicarti solo allo studio...”. Marx, che mi considerava una specie di figlio adottivo, mi parlava con la saggezza di vita e l’esperienza di chi, passati i 50 anni, aveva sofferto molto e moltissimo imparato. I miei genitori mi raccontavano del fidanzamento di Marx e Maria e del loro amore nato nello stesso antico borgo di Trigoso, dove essi stessi si incontrarono e si sposarono. Nel 1923 Maria si ammalò gravemente; un giorno, sotto la finestra della sua camera, un gruppo di imbecilli, vestiti di nero, portarono una corona di fiori, crisantemi ed una cassa da morto. Bisogna dire che negli anni venti Marx fu ripetutamente aggredito da farabutti che non tolleravano le idee contrarie alle loro; su consiglio di mio padre, finalmente accettò di riparare all’estero, in Francia.

Passarono gli anni, Marx, ritornato a casa, sposò Maria ed i miei genitori furono testimoni in Municipio e in Chiesa, naturalmente; nel profondo erano tutti tanto religiosi quanto fermamente contrari alla ideologia politica allora dominante.

La povera donna aveva smesso di piangere. “Cara Maria, la causa di tutto ciò è facilmente comprensibile; a 80 anni il cervello di un uomo come Mario, che ne ha visto e vissuto di tutti i colori, può anche perdere colpi...”. Sorrisi,  soltanto per nascondere i miei veri sentimenti. Maria si congedò, promettendomi, per le sette del mattino successivo, una tazza di caffè, che “così buono non se ne beve in nessuna parte del mondo”.

 Quella sera mi addormentai solo dopo aver deciso di sospendere il trattamento specialistico in atto ed instaurare la terapia del sonno.

Negli anni cinquanta il medico di famiglia, posta la diagnosi al letto del malato senza l’aiuto di “icone elettroniche” o il parere di uno specialista disponibile, poteva liberamente scegliere secondo scienza e coscienza la terapia personalizzata, considerata la migliore. Fu così che spedii Marx, per ben due giorni, nel mondo governato da Hypnos, senza l’aiuto né della virtuosa acqua del fiume Lete, spruzzata col ramoscello, né di effluvi soporiferi fuoriusciti da un corno, ma con la somministrazione endovenosa di un ben dosato miscuglio di farmaci. I mille e mille occhi di Argo risultarono incapaci a conservare Marx nel mondo della veglia; sopraffatti dai poteri di sostanze chimiche, versione moderna della musica di Mercurio, i suoi occhi improvvisamente si chiusero in un sonno profondo.

Dopo 48 ore Maria, fiduciosa nei risultati della terapia, condivideva la mia emozione, assistendo al risveglio del marito. Attentamente studiavo il comportamento e le reazioni di Marx, che, aperti gli occhi, si stiracchiò le braccia e si mosse in modo disinvoltamente fisiologico: baciò la moglie teneramente come sempre, mi salutò con il noto affetto e chiese la sua solita colazione di latte, caffè e pane.

 Come insegna l’oscuro Eraclito, per chi è desto il mondo è unico e comune a tutti ma chi dorme si ritira in un mondo particolare, che io silenziosamente cercavo di intuire dai gesti e dalle parole di Marx. Chiusi gli occhi alla realtà della veglia, il dormiente li riapre di fronte ad una realtà certo diversa, ma non per questo priva di significato. Infatti, la mitologia greca insegna, per bocca di Esiodo, che Hypnos e Thanatos sono fratelli; il sonno è una prefigurazione della morte ma è anche un accesso che conduce ad una dimensione di fronte alla quale l’intelligenza più vigile ed acuta è costretta ad arrestarsi.

Certamente, nella storia del pensiero il mondo onirico è stato differentemente valutato, ora in senso positivo ora negativo. Al sonno fu attribuito valore conoscitivo ed escatologico in quanto in esso l’uomo si rivela a se stesso e, attraverso i sogni, accede al mondo della surrealtà. Il sonno, quindi, diventa un momento di più-vita. In breve, il mondo onirico si configura come un grande libro, di cui il sapiente decifra alcune frasi mentre il non sapiente solo alcune lettere qua e là.

La mia decisione terapeutica, resa possibile dal contesto storico degli anni cinquanta, era stata determinata appunto dalla volontà di fare sperimentare al mio paziente la particolare intersezione tra la veglia, alterata da allucinazioni, ed il sonno, auspicabilmente terapeutico, una situazione utilizzata dagli antichi nella diagnosi e terapia a mezzo di simboli notturni comunicanti nei sogni.

 Novello Asclepio, osservavo attentamente ed interrogavo Marx per ottenere ed eventualmente accertare la “miracolosa” guarigione elargita da una specie di rituale incubatorio. In altre parole, speravo ardentemente che a Marx fosse successo, come ad Epimenide, di risvegliarsi guarito dopo un lungo sonno, anche se io non ero dotato di poteri demiurgici soprannaturali.

Tuttavia, non avevo sufficientemente tenuto conto che la distanza formale tra sonno e veglia, nella memoria del sogno, è ridotta a tale punto da assomigliare ad una coppia di immagini riflesse sull’acqua; è il punto di intersezione in cui, magari in modo fugace ed effimero, il “doppio” si ricompone e le due parti, scisse dalla realtà, possono comunicare. E così Asclepio appariva ai fedeli addormentati nel tempio simile alle sue statue di culto, come se fosse lì e lo si potesse toccare: una esaltazione della mente, una dilatazione degli orizzonti percettivi oltre il tempo e lo spazio, nella consapevolezza, propria dei devoti e dei bigotti, ma anche di liberi pensatori come Marx, della vastità delle vie che il mondo notturno spalanca all’esperienza della mente.

 Il giorno dopo, mentre Maria canticchiando felice preparava il caffè, Marx mi invitò a sedermi sul letto e, fissandomi negli occhi, in perfetta serenità e senza alcuna emozione disse: “Sai, dottorino, dopo il mio risveglio ho visto più volte la Madonna del Rosario, che mi parlò spesso durante il lungo sonno...”. Figlio prodigo in una famiglia di cristiani, cattolici, apostolici, romani, con uno zio arciprete, a stento frenai la spontanea domanda, banale e catastrofica ai fini terapeutici, a proposito delle espressioni linguistiche preferite dalla Madonna nei suoi dialoghi con Marx.

Sebbene colto alla sprovvista, mi riuscì fortunatamente di mascherare i miei poco nobili pensieri; in silenzio continuavo con indifferenza a fissare i dolcissimi occhi di Mario.

Improvvisamente, non so cosa mi capitò, fui come trasportato in un altro tempo, nel 1924; vedevo pallida, distesa su di un letto, in punto di morte, mia madre, sofferente per sepsi puerperale, contratta dopo aver partorito un figlio, morto due ore dopo a causa di un parto alquanto travagliato; vedevo Mario preoccupatissimo, che con la bicicletta, in una fredda notte invernale, percorreva la ripida e pericolosa discesa alle pendici del Bracco per raggiungere al più presto Chiavari e procurarsi rare medicine, risultate poi efficaci; vedevo Maria e mio padre in lacrime pregare la Madonna del Rosario perché salvasse la vita ad una sventurata giovane di appena diciannove anni...

La squillante voce di Maria interruppe il succedersi di eventi, a me più volte raccontati ed ormai fissi nella mia memoria. “Il caffè è pronto, si raffredda, dottorino,... parlerai dopo...”. “Vengo”, risposi senza riflettere, continuando a guardare Mario, che attendeva una mia risposta. “Se la Madonna non venisse a fare visita ad uno come te”, dissi con convinzione, “che Madre sarebbe mai...”

Pochi giorni dopo, Maria sistemò con cura sopra una mensola in un angolo della camera da letto una statuetta della Madonna del Rosario, dal mantello celeste finemente drappeggiato, dono di “una misteriosa ammiratrice” del marito.

E continuammo a chiamarlo Marx.