Licia e il suo mondo piccino

Gaetano Dell'Anna



Aveva appena compiuto trent'anni, la piccola Licia, quando venne a cercarmi nella stanza dell'Università dove avevo un incarico di poco conto. Piccola perchè minuta nell'aspetto e nei modi, senza nemmeno un saluto, mi approcciò così:
"Io ero in aula stamattina. Senta, io penso che lei non potrà fare proprio niente, ma tanto vale che ci proviamo, perchè io ho una paura fottuta.".
Tre volte "io" e un vago "noi"; ebbe il suo appuntamento e poi, ogni settimana, fino all’ultimo, fu diligente che di più non si può, e resistette meglio che poteva.
Sintomo dichiarato: una paura-certezza che sarebbe diventata "pazza come mia madre" che non la faceva dormire e le toglieva ogni altro pensiero.
Licia è, naturalmente, un nome di comodo che nemmeno somiglia a quello della persona di cui narro; l'ho sognata una volta, con questo nome.

Primo anno.
Parla molto della malattia della madre: mitomania, magniloquenza e prodigalità VS pessimismo distruttivo, ipocondria e igiene ossessiva: una psicosi bipolare minuziosamente descritta.
Domanda: "Che cosa si aspetta che avvenga grazie al lavoro che faremo?"
Risposta immediata: "Non lo so. Magari lei è solo un imbroglione. Che cosa pensa che debba aspettarmi?"
"Potrò dire che cosa potremo aspettarci, ma non ora. Tra un po' di tempo. Va bene?"
Tira fuori dei soldi: "Ho solo questi. Bastano?"
"Per la seduta, sì."
"Per la seduta, certo; ho un lavoro io!"
Gradualmente, in pochi incontri, la lettura sintomale della relazione mi porta un'impressione: Licia vive in una solitudine estrema in quanto non sa provare fiducia, naturalmente non per me, e tanto meno per se stessa; sembra non avere proprio appreso l'esistenza di un simile sentimento e le capacità che su esso trovano fondamento si direbbero acquisite una ad una, caparbiamente, per imitazione.
La decisione di chiedere il mio aiuto in un modo così paradossale si inquadra tra una certezza adultomorfa che io sia “un imbroglione” e che “non potrò fare proprio niente” e lo sfondo di prodigalità infantile che si avverte nella frase sopra dove sembra dire, “ho molti soldini, sono grande io.”; la presenza contemporanea di entrambe tali forme – coerenti a quelle della psicosi materna – mi fece pensare a una personalità immatura ma ancora flessibile e suscettibile di crescere e maturare, così pensai, e sperai.
Ma era una congettura precaria, più che una speranza; per la presenza nella personalità di due forze avide di potere e contrapposte, qualunque cosa in Licia avesse bisogno di quell'energia che si chiama "fiducia" sembrava destinata ad annichilire: "Non riesco in niente." parole sue, asciutte, indifferenti e fredde come la sua solitaria disperazione.
Opinai che le occorressero nuovi modelli e cominciai a fare mia quella solitudine rappresentandogliene il senso in ogni modo possibile: con la voce, i gesti, la postura, mostrandomi – nelle diverse occasioni – felice, gioioso, preoccupato o addolorato per tutto quanto per lei fosse, invece, emotivamente insignificante.
La sua indifferenza divenne pessimismo aggressivo: “Lei fa finta di interessarsi, ma non gliene frega niente.”; così conflittualmente, scettica eppure interessata, continuava a essere puntuale ad ogni incontro.
Licia non conosceva persone di cui avere qualche considerazione ne cose che meritassero di essere desiderate, e non faceva progetti che meritassero, per lei, di essere coltivati. Riguardo alla propria vita riferiva di aspettative modeste e stereotipate, nella certezza che comunque non si sarebbero mai realizzate, e di un partner sessuale del quale, per una domanda, affermò: "No; non lo amo. Non l'ho mai amato: è un fallito!".
Vivendo di cose esclusivamente funzionali e strumentali, in tale condizione si prendeva cura diligentemente della madre e di una zia anzianissima "perché mi devono lasciare un bel po' di soldi". Col padre, che nel formare un’altra famiglia, aveva lasciato la moglie e la figlia ancora piccola presso la zia, coltivava un'infinita diatriba legale per alimenti non corrisposti.
Nessuna amicizia, nessun desiderio di averne, nessuna vita sociale.
Mesi e mesi di sedute piatte così: puntuale entrava, "buonasera" e si sedeva, accendeva la sigaretta e cominciava a parlare. Non parlava a me, o con me, non dialogavamo; Licia parlava, io provavo di mettere in scena per lei le mie emozioni (a volte anche con la didascalia, “questo sì, che è penoso”), ma lei non commentava se non per demolire (alzata di spalle, “e come no?”).
Quando mi alzavo s'interrompeva e si alzava a sua volta, "arrivederci", e usciva.
Era con gran fatica che portavo avanti il lavoro: la sua vocetta monotona, le cose che diceva, la quasi totale inconsistenza di quei contenuti emotivi cui “pretendevo” di dare spessore, tutto concorreva ad assottigliare la mia capacità di pensare; mi accorsi che non sentivo, ma imitavo a mia volta, le emozioni che volevo mostrare.
Licia mi neutralizzava.
Durante le sedute m’assaliva un desiderio incoercibile di dormire e la preoccupante frequenza del fenomeno mi indusse a consultare un collega. Il parere fu: “ mi sembra che la tua paziente ti ipnotizzi. Tu cerchi di assimilarti a lei per aiutarla e vai in trance, non in sonno; è così che diventi simile a lei: non provi emozioni.”
Con questo nuovo punto di vista continuai la mia fatica finchè mi riusci di farle trovare una briciola di fiducia. Avvene che un giorno, mostrando curiosità, dissi: "l'ora è finita, però concluda pure quello che stava dicendo."
Mi guardò perplessa e rispose esitando: "Ma, se è finita,..." e poi, frugando nella borsetta, "me lo ricordi la prossima volta." Era la prima volta che si mostrava incerta e che mi affidava un compito, così dissi: "lo farò se non se ne ricorderà prima lei.".
La settimana dopo aspettò che fossi io a riaprire il discorso: "Allora se n'è ricordato." e guardando intorno "Sa che ha proprio una bella stanza?" Sembrava avessi corrisposto alla sua aspettativa e meritato un premio.
Poi ci furono altri piccoli episodi di affidamento e verifica; come quando, nel dirmi di un’intricata questione tra la mamma e i vicini aveva accennato vagamente a “la medicina del gatto”; tempo dopo nel parlare ancora della madre che ha problemi col gatto chiese:
“Si ricorda del gatto di mia madre?
“Sì, come sta?
“Oh, è guarito.” E sorridendo. “Sta proprio bene.”.
Compresi che Licia aveva bisogno dell’attenzione, sopratutto, di qualcuno che la pensasse e che ricordasse dettagli affettivi della sua vita.
La prima “svolta” avvenne quando, confortato dalla fantasia che la relazione le fosse divenuta necessaria, interruppi un estenuante chiacchiericcio per comunicare: "ho pensato che il nostro lavoro si potrebbe concludere" aggiungendo che ciò sarebbe avvenuto "quando lei lo vorrà" in quanto "a me sembra di non poter fare di più".
Composta e indifferente disse che “per il momento” avrebbe continuato e "io penso che lei possa aiutarmi ancora".
Ancorando il suo "ancòra" col mio indice puntato, approvai: "Ancòra! In che cosa, e in che modo sente di essere già stata aiutata.".
"Beh,... ma figuriamoci se devo spiegarglielo io!" risponde sussiegosa e sorride con timida espressione d'imbarazzo, forse il primo accenno di seduzione che avesse mai tentato in tutta la sua vita. Meritava che iniziassi la restituzione del potere che, inconsciamente, mi dava: "Beh,... ma figuriamoci se devo dirlo io, a lei!" imitando il suo sorriso, il suo tono e le sue parole, e puntando l’indice: "D'accordo, lavoreremo "ancòra" come "è suo desiderio", e termineremo "quando ne avrà una chiara volontà."."
Con questa suggestione volevo istituire, in lei, un legame tra desiderio e volontà, perciò da allora puntavo l’indice ogni volta che dicevo “ancòra”, finchè un giorno, ridendo, non cominciò a farlo lei con me.
Continuammo; lei, con la vocetta piatta come il suo torace infantile, facendo minuscoli tentativi di stabilire un contatto coi sentimenti che le andavo di-mostrando, io introducendo accorte variazioni, remavamo insieme come in un Mare dei Sargassi tra rari refoli d'aria.

Secondo anno.
Per la sua paura “di diventare pazza” avevo mostrato un interesse più che altro formale e lei ormai non ne parlava più; riferiva però minuziosamente tutto ciò che le era capitato con vocabolario esteso e buona sintassi - aveva un diploma di scuola superiore - tuttavia, il giorno che le chiesi se avesse letto qualche cosa di cui mi volesse parlare, con espressione e tono strafottente disse che non aveva mai letto niente che ne valesse la pena.
La contrastai decisamente esprimendo disprezzo odioso:
"Ma davvero? E qual'è l'ultima cosa che ricorda di avere letto con piacere?"
"Le favole."
"Una in particolare?"
"No."
Ed eccola a difendere con giusto odio il proprio mondo interno dal mio odio; piccolo e significativo segno di fiducia in se stessa.
Più avanti mi dirà che, classicamente, la zia la faceva addormentare, da bambina, con la lettura delle favole. Da li congetturai avesse derivato la capacità di far addormentare con la voce, perfezionandola inconsciamente a scopo difensivo.

Si mette alla ricerca di un nuovo lavoro; dell'attuale non l'è mai piaciuto il titolare, "ma tanto sono tutti uguali: ignoranti, disonesti e sfruttatori.".
"Forse piacerebbe a lei, essere un datore di lavoro.”
"Io?" ridendo "Macchè! Io diventare come loro?" sbellicandosi dalle risate "Ma come le è venuto in mente?"
Nuvole all'orizzonte, è passata un’onda calma in questo mare.
“Magari un giorno potrà essere del tutto autonoma.”
“Sì. Quando avrò ereditato.”
Continuiamo a remare.

Parla di un tempo di paure infantili, di brutti sogni, di demoni che la tenevano sveglia.
“Ero piccola, non potevo capire.”
“Ha ancòra paura dei sogni?”
“Non sogno mai.”
Sul lavoro è passata a part-time e intensificato la ricerca di un’alternativa.
Scrive a decine di possibili interessati, fa diversi colloqui; niente. Uno paga poco, uno esige troppo, uno è troppo lontano e uno (incredibilmente) è troppo vicino a casa sua.
“Le sembra strano che non voglio un lavoro vicino a casa?” 
Si preoccupa del mio giudizio e ha trovato un po’ di fiducia.
“Strano, no; inconsueto. Deve aver avuto un’ottima ragione e non sarà stato facile, rifiutare.”
“Vuole sapere perché non ho voluto? Lo vuole proprio sapere?”
“Sì, sono curioso. Coraggio me lo dica.”
“Quello con cui ho parlato era [sussurra] troppo un bel ragazzo; li conosco quelli, io. Ho fatto bene, vero?”
“Ha fatto benissimo. Ci sono tanti lavori.”

Terzo anno
È tornata al suo lavoro full-time e si iscrive a un corso serale di artigianato; poi comincia a desiderare di avere un laboratorio che, si propone, mi inviterà a visitare.
Narra un sogno: è in una stanza con due porte, da una entrano ed escono persone sconosciute, l’altra è sempre chiusa perchè dietro c’è una cosa nera e minacciosa in agguato.
“Che aspetto ha questa cosa minacciosa?”
“è come una gigantesca onda nera, ma è viva.”
“Se aprissimo la porta, in fantasia, che cosa pensa che potrebbe accadere?”
“No, non lo voglio pensare.”
Ma ha già cominciato a pensarlo; la volta successiva ritorna sul sogno e dice di temere che “quella roba nera” possa “sporcarla e consumarla”.
“Però è solo una fantasia.” Osservo.
“Ma io ho paura davvero.”
A “consumare e sporcare” associa facilmente pensieri di colpa e moralità, poi per alcuni mesi non parla che di sesso e, molto lentamente, deriva verso l’amore, la coppia, la famiglia.
Ha terminato il corso serale e si dedica a un piccolo commercio; ha un campionario di oggettini fatti da lei che presenta nelle boutiques.
Io: “è molto brava, non le pare?”
Lei: “Io credo di essere bravissima.”
Mi mostra le foto degli oggetti per arredamento che ha imparato a fare copiando dalle riviste.
Ha un nuovo compagno, conosciuto durante il corso, e pensano di cercare una casa dove abitare insieme.
Ha cominciato a vedersi spesso con una compagna di lavoro e ha una breve storia col ragazzo di lei. Poi, dopo una lite furibonda, pianta tutto e torna col suo uomo.
Comincia ad avere qualche amicizia tra le commesse delle bigiotterie nelle quali si reca a presentare il campionario. Vanno a cena per la festa delle donne, al cinema, al mare.
Un giorno dice imbarazzatissima “Mi sta crescendo il seno! Se n’è accorto?”
“Certo, è evidentissimo; non le fa piacere?”
“Ci avevo rinunciato; no, non è vero. Non credevo che potesse succedere ormai; è merito suo. E’ vero che è stato lei?”
“No, non ho questo potere.”
Ha le lacrime agli occhi, e pure io.
“Sto diventando grande?”
“Sì.”
Litiga spesso col suo compagno, si lasciano, si riprendono, infine trovano una casa.
“Finalmente; così possiamo litigare in casa nostra di persona, invece che per strada o al telefono. Anche dirci cose belle però.”
Invita le sue amiche e gli amici di lui nella loro casa, fanno una festa di inaugurazione e si ubriaca. “Mi hanno detto che imprecavo come un facchino, ma io non ricordo niente.”

Quarto anno.
“Ha l’aria stanca, dottore. Quando va in vacanza?”
Ora può perfino occuparsi di me e pensarmi assente. Non mi annoia più con le sue chiacchiere: narra con partecipato sentimento delle numerose cose che fa.
Ha allestito il suo laboratorio nel quale lavora a soprammobili e oggetti ornamentali dei quali il suo compagno procura le ordinazioni.
Registra il suo nome e il marchio dello studio alla Camera di commercio.
“Alla fine del mese lascerò il lavoro, finalmente.”
Solo tre anni fa aveva detto “Ho deciso che mi licenzio, sono stufa.”
“é contenta?”
“Sono felice! Anche se ho tanto da fare.”
E io sentivo che questa cosa era proprio vera.
Passata l’estate, Licia conclude il suo lavoro presso di me.

La mia ultima domanda:"Che cosa sente di avere scoperto e di poter portare con se?"
La sua risposta molto pensata: "Ho scoperto che il mio destino è di amare persone difficili da amare, e io sono una. Mi porto via questo fatto e la certezza che ce la farò; io sono così e in fondo è un privilegio."

Ecco il caso, se si può chiamarlo così; non prendo mai appunti e ho scritto, di tante, solo le cose che a poco a poco mi sono tornate in mente, molte perciò ne ho omesse, confuse e sorvolate. È venuto fuori qualcosa di simile a una fabula e certo non una relazione clinica. È vero che poteva diventare il memoriale di un lavoro, ma a quale scopo? E poi l’autore avrebbe dovuto essere Licia.
Spesso ho pensato alla mia paziente come a un seme; tutto ciò che è diventata (e che diventerà), quel mondo piccino ch’era potenzialmente contenuto in lei, a un certo punto sembrava volesse esplodere.
Come un seme cerca l’opportunità di germogliare, così Licia ha aspettato i trent’anni per cominciare il suo sviluppo.
Tante cose hanno dovuto coincidere perché ciò potesse avvenire, a partire dal nostro incontro “fortuito”: s’era trovata quel giorno in facoltà a ritirare una prescrizione per la madre dallo psichiatra, un cattedratico, che l’ha in cura, e passava nel corridoio quando, dalla porta aperta, ha sentito la mia voce e s’è fermata, per curiosità.
Poi è venuta a cercarmi: sincronia di luoghi, tempi, necessità e opportunità.
Ha continuato a percorrere la strada da casa sua al mio studio per più di quattro anni.
M’ha riferito, poi descritto e infine narrato, come fosse fatto il suo piccolo mondo e, mentre parlava a me, e parlava a se stessa, quel mondo germogliava e poi cresceva rigoglioso.
Io ero dapprima qualcosa di indistinto e facile da incantare e addormentare, poi una parte dialogante sulla scena, e mano a mano che il mio risveglio coincideva col risveglio di Licia, sempre meno l’attore che metteva in scena le emozioni che lei voleva conoscere, e sempre più uno spettatore attento, appassionato da quell’opera d’arte che la vita di Licia stava diventando davanti ai miei occhi.
Alla fine ero solo li, a guardare.