Granello di sabbia

Sergio Stagnaro


In paese nessuno aveva sicure informazioni sul barbone, arrivato ormai da tre giorni, che aveva trovato l'America grazie a un comportamento gentile ed affabile.
La vecchia Martina, dalle mille avventure e dal cuore grande come un oceano, anche a causa di una preoccupante cardiopatia dilatativa, secondaria ad una ipertensione arteriosa di lunga data, gli mise a disposizione il magazzino dove il gozzo del Carlin ricuperava energia, dormendo sonni ristoratori in quel tranquillo inizio di primavera.
Al cibo provvedevano gli operai del Cantiere navale uscendo dalla mensa, secondo una tradizione bene conosciuta da cani e gatti, nell'occasione in stato di armistizio sempre rispettato dalle parti.
Si trattava di un barbone singolare, sui trenta anni, accuratamente pulito nei suoi abiti semplici e dimessi, alto e asciutto, scarno in volto, due occhi neri bellissimi e dolcissimi, sopracciglia chiare, la fronte alta e distesa, lunghi e ondulati i capelli biondi.
Nelle strade, nei bar e dal barbiere si parlava soltanto dello straniero; tutti erano d'accordo sul suo fascino singolare e la stranezza dei discorsi imperniati sul senso della vita di non facile comprensione. Fu così che andava crescendo in Paolo, atletico ventenne studente di Ingegneria, la curiosità di conoscere il "barbone-senza nome", com'era stato battezzato in modo per la verità simpatico ed amichevole.
L'incontro tra i due avvenne per caso una mattina sulla spiaggia deserta, dove il giovane passeggiava distrattamente, di tanto in tanto progettando possibili avventure amorose. Lo vide in meditazione, immobile, seduto vicino al mare a gambe incrociate, le braccia distese sopra le cosce, il palmo delle mani rivolto verso il cielo, il fusto lievemente piegato e lo sguardo fisso là dove il cielo e il mare sembrano diventare una cosa sola dall'aspetto di un grosso criceto. Ad un centinaio di metri dal barbone, Paolo adottò una tattica infallibile per attirare su di sé l'attenzione di qualcuno. A squarciagola intonò: "Venezia, la luna e tu...". La sua voce era orribile, irrimediabilmente stonata ed irritante, più straziante del gracchiare dei corvi. 
Inoltre, quando non ricordava le parole, il che accadeva spesso, emetteva terrificanti mugolii, uditi i quali, i numerosi gatti, pigramente distesi pancia in giù all'ombra delle barche, fuggivano, veloci e terrorizzati, il più lontano possibile per nascondersi al riparo di leudi secolari.
Giunto a pochi passi dal barbone-senza nome, ottenuto il risultato desiderato, Paolo interruppe l'orrenda tortura e con finta indifferenza disse brevemente: "Giorno". 
"Buon giorno a te, giovane", repentina fu la risposta di chi lasciò chiaramente intendere che stava lì aspettando proprio lui. 
"Certamente si può definire un buon giorno, con questo sole caldo, il cielo azzurro senza nuvole, il mare immobile, il verde chiaro dei pini in crescita"… 
Lo straniero lo interruppe, aggiungendo: ".. e il volo dei gabbiani; "Io non so dove i gabbiani abbiano il nido..."". 
Recitava i versi come un attore esperto sottolineando, col tono della sua voce raffinata e calda, la drammaticità dell'esistenza umana, e dei gabbiani, con parole che racchiudevano un'antica saggezza come dentro uno scrigno prezioso. Quindi, invitò il giovane a sedersi accanto a lui sulla sabbia. Paolo si sentiva felicemente turbato. "Tu sei uno studente di..." affermò sicuro, ma istintivamente il giovane lo interruppe: " Ingegneria. Terminati gli studi universitari, lavorerò nei Cantieri Navali", e col gesto di una mano indicò le enormi strutture, composte da alte gru, scali e capannoni, posti tra la chiesa ottocentesca e le antiche case di Borgo Renà. 
Il suo interlocutore dava la netta impressione di conoscere ogni cosa, che egli andava dicendo. Lo straniero fissò Paolo negli occhi per pochi secondi e, poi, volse lo sguardo lontano dove cielo e mare sembrano scomparire insieme, dileguandosi nell'infinito. "Bravo. Presto nel lavoro utilizzerai le leggi di natura".
Sicuro di non essere osservato, corrugata la fronte e socchiusi gli occhi maliziosi, il giovane atteggiò le labbra in una lieve smorfia ricca di significato e pensò:
"Vedrai questa sera... che leggi di natura ti scopro...".
"Anche l'uomo di scienza, prima o poi, si pone la domanda sul senso della vita", proseguì secondo le attese il "barbone- senza nome", mentre Paolo veniva colto da una certa preoccupazione: 
"Chi te lo ha fatto fare?" si chiedeva in silenzio. "Bene ti sta!".
In quel momento nutriva il solo desiderio di avere le ali come i gabbiani, che spericolati disegnavano, alti nel cielo, impossibili geometrie.
"Wo kommst du her, wo gehst du hin?", disse il barbone e, quindi, tacque per pochi, apparentemente lunghissimi minuti. Paolo avrebbe voluto rispondere di conoscere bene la traduzione, avendo studiato di notte il tedesco con numerose e formose giovani turiste danubiane, ma l'interlocutore non sembrava affatto interessato a simili argomenti. L'aitante ventenne, da un lato, molto volentieri si sarebbe trasformato in un granello di sabbia, dall'altro, tuttavia, era intenzionato a vedere dove lo avrebbe portato il delirio dello straniero.
"Quando il rumore necessariamente lascia il posto al silenzio, una volta almeno nella sua vita l'uomo si interroga sul senso". 
Come per avere la conferma che Paolo lo stava ascoltando, il barbone interrompeva saltuariamente la contemplazione dell'infinito, volgendo lo sguardo verso il giovane, trasformato in Horer des Wortes (uditore della parola).
"L'uomo può affrontare sostanzialmente la sua angoscia esistenziale, che deriva dalla inevitabile domanda sul senso della vita, in due modi: con l'atteggiamento di Minerva di fronte al cosmo o con la tensione di Giacobbe che lotta per una notte intera contro l'Angelo". 
Paolo ascoltava sì, ma senza capire il significato di una sola parola; sul volto portava la maschera di Amleto, ma ben altre erano le domande che si poneva:
"Che cosa mai di male ho fatto nella vita? La mia umana curiosità ha forse offeso il Padretemo? Tutto ciò che ho preso mi è stato donato, sempre volentieri. Che cosa vuole da me costui? Senza offenderlo, sento il dovere verso me stesso di sottrarmi a questo strazio da Geenna. Ad ogni modo, mio esoterico e dotto barbone, io, per quanto ignorante, mi schiero dalla parte di Minerva, femmina tranquilla, e non con l'iracondo Giacobbe che non sa fare di meglio che prendersela con gli angeli. Ma cosa mi sta succedendo? Con i suoi deliri scientifico-religiosi costui mi confonde la mente".
E si sforzava di recitare la parte del provetto giocatore di poker senza carte valide in mano anche se, in realtà non sapeva neppure come si gioca a briscola. Era sul punto di essere colto da profonda disperazione, senza un possibile ritorno, quando una improvvisa e fresca brezza marina, accarezzandogli il volto, gli venne in aiuto. 
"Mi scusi tanto", disse al suo interlocutore, "In una giornata come questa, così luminosa da invitare più ad incontri amorosi che all'inutile meditazione su problemi complessi, che tali rimarranno, lei sta qui solitario a riflettere sul senso della vita. Il suo è un atteggiamento piuttosto... singolare.. strano, non le pare?".
In considerazione, forse, della giovane età, lo straniero sorrise dolcemente al giovane e proseguì subito dopo:
"Nell'uomo, dove per altro possono coesistere, vi sono due posizioni dello spirito, fondamentalmente diverse: il distacco da sé, universale, sapienzale, della intelligenza che vuole conoscere l'essere ed impadronirsene, Minerva di fronte al cosmo, e l'atteggiamento salvifico del singolo io, drammatico, di suprema lotta per la salvezza di sé, il comportamento imprecatorio di Giacobbe, che vuole il suo Dio o, piuttosto, da Lui è voluto. Il primo atteggiamento è filosofico e fa il filosofo, compreso il filosofo della natura. Egli cerca il senso con l'aiuto della ragione, "Felix qui potest rerum cognoscere causas". Mediante la sua speculazione cerca di risolvere l'angoscia esistenziale con una ricerca necessariamente vasta e profonda, perché la poca scienza allontana da Dio, ma la molta avvicina al Principio e Fine di ogni realtà, alla Colonna e Fondamento della Verità. Al contrario, la posizione di Giacobbe è quella del mistico, che, muovendo dalla fede, fondazione di ciò in cui si crede, vive direttamente l'esperienza religiosa nella sua spirituale ascesi, incurante delle leggi del mondo. Questa è una visione salvifica di natura escatologica, una strada stretta, illuminata dalla Croce".
Il ragionamento sereno, sensato, logico e, quindi, convincente dell'uomo-senza-nome, lentamente e completamente affascinò Paolo, che silenzioso osservava il volto dell'altro.
"Lo scienziato, indipendentemente dalla profondità e ricchezza delle sue indagini, non potrà mai trovare la Verità, per quanto sarà in grado di giungerle vicino, ma soltanto mondi possibili, veri sul piano logico e noetico, senza pretesa alcuna di offrire dimostrazioni assolute. Infatti, in natura vi sono valori limite, che si presentano con regolarità a testimoniare un ordine che è cifra e rinvio alla loro fondazione metafisica. Nel movimento delle nuvole, nella turbolenza dei liquidi, nel frastagliarsi delle coste e delle cime montuose, nei moti delle particelle, nonostante l'apparente disordine non vi è caos, ma un ordine di livello superiore, cifra che rinvia al suo Autore. Nel regressus ad infinitum per causas, nel rivivere la meravigliosa avventura della creazione, nell'approssimarsi all'originaria simmetria del Big-Bang, fino a 10 - 43 secondi e alla temperatura di 10 32 gradi, lo scienziato in qualche modo vive l'esperienza propria del Creatore. Gli uomini possono considerare l'universo come un messaggio espresso in un codice segreto, un geroglifico cosmico, che solo ora cominciano a decifrare. Di quale messaggio si tratta? Un granello di sabbia, un atomo, una particella sub-atomica esistono nella misura in cui partecipano di un significato universale. Ma se di messaggio si tratta chi ha creato il codice cosmico, composto da materia-informazione-energia? Se l'enigma del codice è stato imposto dal suo Autore, i tentativi umani di decifrarlo non costituiscono forse la trama, lo specchio sempre più lucido, in cui l'Autore rinnova la conoscenza che ha di se stesso?"
Il giovane intervenne con una citazione: "Il mondo è una macchina che produce dei".
"Il mondo è una macchina che produce santi", subito precisò il "barbone-senza-nome". "L'uomo è un albero divino e si sviluppa e cresce per azione delle sue radici che raggiungono il grande fiume di dolore o di amore, nati dal cuore aperto di Cristo. "Dolore e amore santificano quando si uniscono; sono le assi della Croce, le quali permettono l'incrocio della misericordia, che la sofferenza richiede, con la giustizia, che esige la pena; l'incontro del cielo e della terra; la pacificazione di Dio con l'uomo. Dolore e amore, uniche ed insostituibili realtà della vita, si fondono quindi nel santo. Non dolore-senza-amore ma dolore amato. Non amore-senza-dolore ma amore crocifisso". Un dolore senza amore è un inferno. Un amore senza dolore è un paradiso inesistente, una illusione. Il termine della santità è Cristo-Amore, Cristo-Dolore".
Tacque e fissò l'infinito. Era giunto il momento del commiato. Paolo aveva capito che, accanto alla ragione della mente, che pensa l'uomo e il mondo, vi è la ragione dell'anima, che fa pensare l'Eterno.
Il giovane lentamente si allontanava, riprendendo la sua passeggiata, posando i piedi nudi sulla sabbia, dolcemente, per non fare rumore.
Giunto presso i Cantieri Navali, immersi nel giusto riposo festivo, si voltò e diresse lo sguardo verso il luogo del suo incontro con l'uomo-senza-nome, che porterà nella sua mente, negli occhi e nel cuore, finchè voleranno i gabbiani.
La spiaggia era deserta in un ambiente apparentemente metafisico, a causa delle strutture metalliche dello stabilimento e del silenzio profondo, irreale.
Paolo percepiva una presenza umana vicino a sé, troppo vicino per poter essere vista da occhi capaci di distinguere appena un granello di sabbia.