Il brigante e la cantinaccia

Antonio Raimondi


 

“ Amo immensamente questa terra, e più passano gli anni, più essa mi sembra ricca. Quando sarò vecchio, dai suoi torrenti, dalle sue case di pietra e dai suoi boschi mi verranno incontro i ricordi dell’infanzia, e il cerchio si chiuderà “

                                                             H. von Hofmannsthal

                                             

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 Moltissimi anni fa,  forse più di un secolo, in una grotta solitaria fuori le mura saracene della città di Trapezakjon, aveva il suo nascondiglio un giovane coraggioso e forte d’animo.Era soprannominato “ Gùucchij nijvijr’ “ ( Occhio nero ) e la gente del paese mormorava che si era dato alla macchia per sfuggire alla legge che lo aveva condannato ingiustamente per un delitto di cui però lui si era sempre professato innocente.  Di carnagione bruna, aveva  un’ampia fronte piena di silenzio e  gli occhi neri gravati di pensiero per la  vita  di stenti condotta dai suoi poveri compaesani.    In quegli anni di miseria non spense mai la fiaccola della ribellione contro la disparità, l’ingiustizia e l’asservimento, legittimando con la sua lotta quella rivolta sociale di un popolo affamato, stanco di subire soprusi da una classe agraria conservatrice.Uomo taciturno e scontroso ma nel contempo affascinante e buono, si nutriva di pane ” npijzùt’” ( duro e nero ) e formaggio.  Coltivava  la sua solitudine e il suo amore per la  libertà  rifugiandosi, nei momenti difficili, in vari pagliai siti  in un bosco impenetrabile, profumato di resina ed incenso  : il bosco di “Cardùraahl’ “. Erano tempi in cui “ ‘a ‘rròbba “ ( la proprietà ) era sacra e chi possedeva un po’ di terra deteneva anche un certo potere, che il più delle volte lo rendeva arrogante ed ingiusto. Nelle serate d’autunno della mia fanciullezza quando la solitudine, anche se attutita dalla lettura dei libri di scuola, incominciava a pesare e l’ombra della sera avvolgeva le buie e strette case, mi recavo spesso in un luogo particolare, dove, seduto per ore come sul margine tranquillo della vita, ascoltavo, portata dal vento l’incredibile storia, tessuta da ragni benevoli, del brigante invaghitosi di una fanciulla che parlava dei suoi sogni d’amore alla luna. Sono queste, storie intrise di commozione e di malinconia che ti vengono a cercare ogni tanto per farti viaggiare nel vento dei ricordi. Piccole odissee venute da lontananze remote, fatte di un gesto, di un sentimento, da una vicissitudine e  però percorse dal vento di grandi orizzonti ed avvolte dal senso dell’eterno fluire della vita. Per insegnarti il giusto modo di vivere, ti ricordano gli anni difficili in cui affrontavi le privazioni con serenità d’animo e la caparbia volontà di liberarti della miseria.

È una storia che si è svolta in una casa vicino al rione  “tjimpone “.La casa era una catapecchia quasi infossata nella terra umida in cui non penetrava mai un raggio di sole; situata com’era in un desolato cimitero di ruderi, era vitalizzata sulle anguste finestre da ciuffi rossi di peperoncini e da una piccola manciata di verdi gerani e garofani profumati. Tra queste vie deserte si udiva di tanto in tanto solo l’eco di passi frettolosi che si alternavano a canti sommessi di donne che modulavano con la loro voce lamentosa la storia del  triste tramonto della loro vecchiaia . Dentro, sulle pareti scrostate e piene di “ pàppjcj “( tele di ragni)  dove erano appoggiate un“ cascijonj “( cassapanca ) ed una cristalliera sudicia piena di “ cacatine” di mosche, facevano bella mostra sopra la spalliera del letto in ferro battuto immagini celesti di santi e madonne impregnate di  quell’odore di cerimonie sacre e di preghiere e di processioni, che inducono anche un non credente a mettersi in dubbio e a pensare che forse…In questo vicinato muto di presenze esistono ancora le pietre che le  scarpe chiodate di quegli uomini hanno calpestato, su cui hanno sputato veleno e fatiche, su cui hanno scritto la loro pagina di sangue. Le mura delle case vicine, addossate le une alle altre come un antico presepe,  riecheggiano ancora le loro voci spettrali.La storia inizia un mattino di primavera quando l’aria è fresca e limpida, in quell’ora dell’alba che precede il sorgere del sole e le cime dei pini di Mostarico coi loro pennacchi giganteschi ,come per un incantesimo, sembrano cambiare colore adattandosi alle stagioni. Quel giorno, ripeto, che l’aria intorno era quieta   e rivestita di luce, e fin dove arrivava lo sguardo si avvertiva la pace immutabile della natura, il giovane brigante si avviò per l’impervio sentiero verso quella macchia grigia di tetti di Trapezakjon. Lungo il tragitto lo accompagnava il canto festoso delle cicale, il fruscio leggero delle lucertole nelle macchie, il profumo inebriante dei fiori di biancospino e rosmarino. Con le scarpe chiodate con tacce e salvapunte lustrate con sugna di maiale,  i capelli neri  lisciati con olio d’oliva, il pantalone di fustagno alla zuava stretto da una “ currja “( cinta ) con un grosso coltello a serramanico appeso, percorse a passo svelto le viuzze lastricate di pietre ineguali e sconnesse, scansando ragazzi coperti a malapena da vesti lacere e coi piedi scalzi intenti al gioco della trottola. Dopo un breve percorso si fermò nella vecchia osteria della “ Cantinaccia”. ( MammaRosa “ di Paolo  il figlio du ‘bbànarm ( buon’anima) di zù Pijtr’ a Rijzz’). Il “vicolo “ che vi si affaccia , arredato da un’antica scala di pietre del saraceno  costituita solo da tre gradini unici nella loro bellezza piena di rughe, è un posto unico a cui sono particolarmente affezionato. Mentre siedi sul gradino sormontato da una sola  grande “    palachètta “ , ti sembra di sentire proveniente dalla “ Cantinaccia” la voce di due grandi pini-travi che piangono. Stanchi per il peso di tanti inverni sulle spalle, si consolano parlando con la stupenda “ incannizzata “ ( canne fitte legate con spago) che sorreggono, dei grandi spazi liberi in cui erano nati e cresciuti, degli alti pascoli silenziosi sui quali all’ombra dei loro rami sostavano i pastori con le loro greggi.Ora restituiscono ai pochi passanti di oggi l’eco ammaliante e sinistra dei passi notturni di briganti impiccati o le urla disperate di maiali squartati.Ogni giorno poi raccontano ai ragazzi del vicolo dei percorsi antichi della transumanza o di quando abitavano gli antichi sentieri dei carbonai ed erano felici insieme agli altri alberi del bosco.La prima volta sentii i loro discorsi di infinita nostalgia mentre mi recavo a casa di mia madre, in quelle serate d’autunno quando la solitudine è più pesante per i vecchi e l’ombra dell’inverno che si avvicina li rinchiude definitivamente nei loro “ jusi”( case a pianterreno).Da allora come dicevo, mi reco spesso in questo posto . E seduto per ore  ascolto, proveniente da quelle travi di legno  della cantinaccia, un suono dolcissimo e struggente come un pianto lontano e misterioso che sembra provenire dai confini remoti del mondo. I passanti frettolosi, nell’ascoltare questa melodia misteriosa, si segnano la fronte e pensano a quella vecchia storia della fanciulla e del brigante.Quando avventori ubriachi parlavano della falciatura prossima del fieno e dell’effluvio delle erbe essiccate il cui profumo nelle afose serate estive arrivava fino in paese.Farneticavano di un grande masso di pietra circondata da una magica radura popolata dagli spiriti dei boschi da cui sgorgava la tenera acqua della “Fontanella “; anche se loro preferivano il vino con cui combattevano il loro male di vivere affogandovi la loro disperazione. L’incontro con la fanciulla avvenne  proprio nel vicolo  tra la cantinaccia e la casa di zy “ Ntoniy y Garrùup’ e fu solo di uno sguardo intenso e profondo.Dolce era l’aurora quel mattino ed il cielo si rischiarava sulle vette luminose delle  montagne mentre nuvole rosee si inseguivano agili e lievi.Ancora turbato dalla visione di quell’incontro fatto di un attimo il brigante si tolse la cappa e il cappellaccio e si sedette sullo “ scanno” (sgabello) ad un tavolo vicino al banco ed ordinò un quarto di vino della botte.  Intanto la ragazza, superato il primo istante di stordimento, con l’orcio in equilibrio su una corona di stoffa adagiata sui suoi neri capelli a treccia, affrettò il passo per fare scomparire i segni della paura recandosi ad attingere l’acqua al cannone.La famiglia della ragazza era di tipo patriarcale, abbastanza numerosa come si addiceva allora, proprietaria di grandi appezzamenti di terreno ubertoso e produttivo ricco di uliveti.          Poi si rividero tutte le sere  ed il loro amore, tormentato, irruente, malinconico, segreto divenne una leggenda che però non tardò ad arrivare alle orecchie della  famiglia della fanciulla.    Come aveva potuto un piccolo brigante levare gli occhi sulla loro unica figlia, ricca fin da piccola della dote necessaria per fare un buon matrimonio ? Al tempo della semina  quando la maggior parte dei “massari” lasciava il paese per trasferirsi nelle loro case di campagna  il padre ed i fratelli gli tesero l’agguato. Il brigante quella sera, assorto e sperduto nei suoi pensieri, la  cercò in quella sua  casa che come al solito al buio sembrava disabitata.                   Le foglie  morte del vecchio fico addossato al muro davanti alla porta roteavano in un piccolo mulinello volteggiando e danzando lievi intorno a lui come volessero dargli l’ultima carezza.   Con il viso tirato e scuro e lo sguardo diffidente ma abbagliato dall’amore,  prese come al solito la chiave in un anfratto segreto dello stipite della porta. Aprì la porta, girò il “mànnolo” (  chiavistello), tolse la “varretta “ed entrò come le altre volte, sicuro. Non trovando la fanciulla all’entrata ne invocò dapprima con prudenza il nome.Non ottenendo risposta, si avviò verso la fioca luce della candela che illuminava la sua stanza. Il padre ed i fratelli appostati nel buio attendevano il momento propizio.Il silenzio era  rotto solo dal battere dei zoccoli ferrati degli asini sul pavimento di terra  della stalla di fronte. A quel punto il brigante roso dal desiderio d’amore si fece imprudente. Appoggiò il suo fucile sul tavolo mentre il coltellaccio luccicò per un attimo alla luce del mozzicone di candela. La ragazza , intanto, era impietrita dal dolore e dalla paura per la scena che si prospettava. I suoi  attendevano invece con calma e paura mista ad ira il momento propizio per l’aggressione. Ad un segno convenuto  il padre,  armato di una “gàaccija “ ( roncola ) tagliente molata per giorni e giorni fino a farla diventare un rasoio, gli staccò d’un colpo solo la testa che stramazzò rotolando fino all’uscio. - Ti avrei dato pane e “ casu “ ( formaggio ) o altra “ rrobba “ da mangiare come olio e vino; mi sarei tolto pure la camicia di dosso o sarei andato scalzo a chiedere l’elemosina, ma non avrei mai accettato il disonore di  mia figlia  andata sposa ad un brigante. I figli intanto prepararono un sacco di iuta dove misero la testa ed il corpo del bandito, lo caricarono sulle spalle e si avviarono verso il canale “ Porta “ per seppellirlo. Fu in quel momento che alcuni contadini mattinieri  videro la scena nella luce fioca dell’alba e non riuscendo a distinguere niente dissero in giro che gente “straniera” quel mattino aveva sotterrato un tesoro. Da allora vuole la leggenda che ogni notte persone sconosciute si rechino in quel luogo alla ricerca dell’oro seppellito.   -- < Questa storia il mio amico Franco Troiano  l’ha dipinta su una tela che tiene nascosta gelosamente nel sotterraneo della casa paterna.La sua evocazione  è una vibrazione ricca di connotazioni antiche , richiamo di un mondo semplice anche se barbaro a cui ha dato vita con pennellate di colori che tra luci ed ombre è diventato un racconto senza fine. Vi si ammira una fanciulla  muta con negli occhi neri ancora i segni della tragedia,  i lunghi capelli scomposti dalla brezza marina che accarezzano i colori di quel pendio circondato da variopinti oleandri , venato dal  rosso- sangue del suo principe perduto; imprigionata in quella tavolozza appena mossa dal vento, il sogno e il ricordo di lui e lei distesi accanto al “ sjpalo “ ( siepe ) pieno  di nidi di fringuelli, di more e gelsomini che emanano nell’aria il profumo della loro felicità .  Ai loro piedi il pianoro azzurro che abbraccia il sole disteso nella sterpaglia spoglia del crinale, in cui spicca un albero d’ulivo curvo a levante e un sorbo la cui chioma danza nel vento felice di distendere i suoi rami alla luce del mattino dopo aver gustato con le sue foglie le ultime gocce di rugiada.  Un fievole sorriso le solca il viso scavato dalla sofferenza. Un fremito di paura si coglie ancora  nel suo sguardo bagnato dalla rugiada del primo mattino -->.    Da quel giorno avvisate da rondini pietose persino le stelle scendevano la sera a posarsi sui suoi pensieri per consolarla dell’amore perduto.   E  nell’attesa del sonno della morte lievemente sentiva venire dagli olivi annosi le parole antiche dense di luce del suo brigante a cancellare il buio profondo della sua anima.  Da quel giorno malinconici e duri andavano i suoi giorni a morire.Lievi si adagiavano i suoi pensieri sul sentiero autunnale della sua anima afflitta che un dolce profumo di memorie struggeva come un malinconico arpeggio. Non smise mai di recitare in chiesa e per le vie del paese il rosario. Impazzì giorno per giorno e dopo la morte dei genitori vagò come un cane randagio di giorno e di notte per il paese. E  nella sua follia chiedeva  alla  gente attonita ed incredula dove avessero sotterrato il suo tesoro!! In alcune persone abita fin dalla nascita un male indefinibile, un karma, un daimon, un destino che le accompagna per tutta la vita .Il suo sogno d’amore era stato come il breve canto di un usignolo nella primavera della vita.Un giorno però decise di andare via dalla vita in silenzio. Camminò al buio lungo il sentiero incerto della vita e dando un ultimo sguardo al luogo del misfatto uscì da questo sentiero e dalla vita. Amo collezionare storie antiche che dopo secoli, dopo millenni sanno parlare di felicità al cuore dell’umanità.Trovo che ogni storia anche la più triste sia bella perché trasmette un’emozione che rende diversa la vita di chi la legge o l’ascolta con il cuore.Ogni persona quando non ottiene risposta ai suoi sentimenti si rivolge al vento:  “ O tu che soffi tra le spighe di grano maturo sai dirmi perché gli uomini devono rubare la felicità ed  i sogni dei propri simili? “ Risponde il vento: “Sonnecchia l’onda del mare di Trapezakjon  nella luce che ormai si spegne e nella massa scura delle acque fioriscono le lampare; la  vita di voi uomini si aggrappa ad un soave grecale e lascia la notturna risacca che carezza teneramente la riva e i ricordi, mentre il sole per vostra fortuna scende ogni giorno per giocare tra i rami e le foglie della vostra vita.