Don Augusto
Sergio Stagnaro
Per lultima volta vidi Don Augusto nel gennaio del 1981 a La Spezia, in una sontuosa villa sul mare, circondata da verdi prati e alberi secolari, adibita a "casa di riposo" per anziani sacerdoti.
Pur avendo da tempo superato gli ottanta, era ancora un belluomo.
Lambiente, che lo ospitava, era in netto contrasto con la sua personalità: camere
signorili, tappeti persiani, mobili antichi, specchi di raffinata eleganza, quadri di
autore alle pareti ricche di stucchi; alti prelati apparivano, silenziosi e fugaci, nei
lunghi corridoi illuminati a giorno.
Nel 1917, dopo aver ormai terminato il liceo classico a pieni voti,
Augusto partì per il fronte. In una disperata notte sul Tagliamento in lui maturò
lidea di farsi sacerdote, non più sergente di fanteria ma soldato di Dio, e
dedicarsi ai poveri e bisognosi, naturalmente se avesse fatto ritorno a casa. E così
avvenne. Terminati gli studi religiosi nel seminario di La Spezia, al giovane prete,
eccellente predicatore stimato dal suo Vescovo, venne offerta la amministrazione di una
nuova parrocchia a Migliarino, in una chiesa alla cui costruzione partecipò lo stesso
neo-parroco.
Inspiegabilmente per quanti lo conoscevano, Don Augusto rimase in
quellangolo di paradiso soltanto pochi mesi; dopo un breve colloquio con il Vescovo,
fu trasferito in uno sperduto paese dellAppennino spezzino, dove passò la sua vita,
allombra di un campanile costantemente sul punto di cadere, "come foglia
sullalbero dautunno", rovinando sopra lantica chiesa, cronicamente
malata.
Un giorno - quanti anni sono ormai passati! - chiesi a Don Augusto:
"Don, a Migliarino cera forse una donna?". Sorrise dolcemente e, senza
parlare, a lungo scosse lentamente la testa, chiaramente in segno di compassione per i
miei limitati orizzonti culturali e spirituali; mi sentii sprofondato in un malessere
interminabile avendo sperimentato labissale distanza che da lui mi separava nella
dimensione dellAmore, "strano terremoto dellanima", che
"dischiude le porte dei mondi celesti, facendo pervenire di lassù il refrigerio del
paradiso". Mi spiegò che per lui Amore era ciò che i greci chiamavano
co-appartenenza, fusione, legame spirituale con il prossimo, via di accesso alla Verità.
Trascorsero molti anni di preghiera, lavoro e studio quando anche per
il buon parroco di montagna scoppiò la guerra partigiana, che lo coinvolse totalmente,
suo malgrado. "In questo piccolo paese ho il dovere di aiutare tutti, in particolare
i poveri, i bisognosi e i giovani, da qualunque parte stanno; io li ho battezzati,
cresimati e sposati; sono tutti come figli per me", andava dicendo e alle parole,
come sempre, fece seguire i fatti. Purtroppo per lui, su quei monti nacquero e crebbero in
larga maggioranza futuri partigiani, cosicché anche quelli di passaggio potevano ricevere
un poco di cibo caldo e riposare nella canonica, prima di riprendere il cammino,
accompagnati dalla sua benedizione, che significava conforto e speranza, anche per chi non
era stato graziato dal dono della fede.
Una notte del 1943 i partigiani locali, dopo essersi rifocillati,
abbracciato il loro parroco, partirono per una missione di guerra. Qualcuno, forse in tono
"provocatorio" o forse per istinto, alzava il pugno chiuso; soltanto un
ragazzetto diciottenne, che faceva la staffetta, abitualmente salutava Don Augusto
baciandolo... per farsi coraggio oppure spinto da un impulso, ispirato dalla figura
paterna del sacerdote, suo compaesano.
Dopo circa unora tornarono, stanchi e visibilmente preoccupati,
passando furtivamente attraverso lorto dietro la canonica; in chiesa il parroco
pregava. "Presto Don, i tedeschi ci inseguono... li abbiamo attirati in
unimboscata... dobbiamo lasciare le armi pesanti nel forno della cucina... appena
possibile verremo a prenderle... al più presto...". E rapidamente si lasciarono
inghiottire dalla notte, in un bosco di castagni.
Quante volte ho pensato a quel povero prete, solo con il suo Dio,
davanti a sospettosi soldati della Wehrmacht, presentatisi di lì a poco al portone della
canonica, carichi di armi e desiderosi di vendetta; in quale particolare stato
danimo Don Augusto avrà osservato i tedeschi infuriati aggirarsi nelle antiche
stanze in cerca di una prova decisiva, che, fortuna volle, non trovarono.
Pochi mesi prima, pare per causa di una spiata, il parroco in malo modo
e senza alcuna spiegazione, fu portato nella caserma dei carabinieri di Brugnato. Quella
volta, però, gli era andata bene; non vi erano prove sicure a suo carico. Tuttavia, un
caporale delle SS gli promise molto chiaramente, con un sorriso ricco di significato, che
alla successiva occasione lo avrebbe fatto fucilare comunque.
Fu quella una notte particolarmente agitata; allontanatisi i tedeschi
dal sagrato, silenziosamente giunsero i partigiani, che evidentemente controllavano la
situazione, passando come al solito dal retro della canonica. Presero le armi nascoste nel
forno a legna della vecchia cucina, salutarono affettuosamente Don Augusto e scomparvero
nel buio della notte.Ringraziando il buon Dio, il Parroco andò a dormire e, con qualche
comprensibile difficoltà, si immerse in un sonno ristoratore.
Al mattino presto, però, i tedeschi ritornarono e, senza troppe
parole, spintonarono il prelato e andarono diritti in cucina; nel forno finalmente
trovarono la prova a lungo cercata: "un" proiettile di fucile, chiaramente
abbandonato da una spia. "Questa volta è la mia condanna a morte", pensò Don
Augusto. Al contrario, la spia visse altre poche ore, mentre la divina Provvidenza salvò
il prete.
Accaddero eventi fortunati, culminati con larrivo degli Americani
e la cessazione delle ostilità nella Garfagnana e nel territorio spezzino.
"Di fronte a certi fatti neppure gli scienziati, per quanto
geniali... aquile... riescono a trovare una plausibile spiegazione", dissi, in tono
provocatorio, un caldo giorno destate a Don Augusto, venuto a pranzo da noi per
fare, poi, un bagno nel mare, a quel tempo non inquinato.
"Lumanità ha bisogno di aquile, ma soprattutto di galline.
La trama della divina Provvidenza è sottile e sfugge alla ragione ed alla scienza",
rispose prontamente il sacerdote, esempio fermo, sicuro, puro di una personalità
spirituale.
Negli anni quaranta, gli studi liceali non mi permettevano, se non
molto raramente, di salire al paese di Don Augusto, dove il mondo sembrava aver raggiunto
i limiti del suo dominio. Tuttavia, ero presente sul sagrato una domenica del 1948; sopra
un palco abbellito da bandiere rosse con relativi falce-e-martello, allora ancora di moda,
salì un oratore, candidato a Montecitorio, da poco venuto fuori -Deus ex machina- da un
denso polverone sollevato da una auto primordiale.
Senza aver prima raccolto prudenti ed utili informazioni, il compagno
stalinista incautamente iniziò a ruota libera il solito comizio: "Compagni, tra
pochi giorni la scheda elettorale, frutto della lotta partigiana, vi offrirà la
possibilità di fare dellItalia, liberata dalla dittatura
fascista-capitalista-borghese-clericale, un paese democratico e comunista senza più
preti, servi dei fascisti e co-responsabili di tanti crimini". Innanzi tempo, il
comizio terminò: Don Augusto, che nel suo studio ascoltava, borbottando, lappello
disinteressato del compagno-oratore, furente come un toro, uscì dal portone della
canonica, apertosi improvvisamente e rumorosamente e, attraversati con lunghi passi i
pochi metri che lo separavano dal palco, si accinse a caricare con la sua notevole stazza
il malcapitato, nel frattempo impallidito come un cadavere. Con il dovuto rispetto ma con
scarso successo, parrocchiani ed ex partigiani si adoperavano per frenare lirruente
procedere dello scatenato sacerdote. Sicuramente ne sarebbe seguito un impari incontro
pugilistico, a causa della differenza di peso dei due contendenti se lex capo
partigiano, uomo di grande saggezza, abbracciato fraternamente il prete come tante volte
in passato, non gli avesse sussurrato nellorecchio poche parole di stima e
gratitudine.
Riacquistata improvvisamente la nota serenità, il parroco se ne stava
andando verso la chiesa, intenzionato a chiedere perdono al buon Dio, quando dal sagrato
si alzò un fragoroso e caloroso applauso al suo indirizzo. Naturalmente loratore,
sempre pallido, lasciò il paese tra la totale indifferenza dei presenti.
Molti anni dopo, in un giorno di festa, mi recai a visitare Don Augusto
che incontrai nel suo studio; il pavimento ottocentesco di legno scricchiolava sotto il
peso dei miei cauti ma non certo leggiadri passi, quasi in un lamento. Il parroco era
seduto sopra una instabile poltrona, un tempo di noce, ora rattoppata alla meglio, dietro
una tarlata scrivania, in mezzo a numerosi vecchi volumi di teologia e sacre scritture,
disordinatamente ammucchiati su polverosi scaffali. Indossava la solita, forse unica,
enorme tonaca, il cui colore, una volta nero-seppia, era diventato ormai fumo-di-Londra,
reso meno indecoroso dalla sintonia perfetta con lambiente circostante. Il compito
principale di quellabito, dalla identica cagionevole salute del campanile e della
chiesa, sembrava essere quello di nascondere laspetto clownesco di smisurati
scarponi, calzati tutto lanno, estate compresa. "Adesso dedico la maggior parte
delle mie giornate a risolvere tanti problemi pratici...", mi disse il Don a modo di
giustificazione; guardò improvvisamente lorologio da tasca, si alzò rapidamente
dalla precaria poltrona,e mi invitò a seguirlo frettolosamente fino al portone della
canonica.
Sul sagrato, nei pressi della fermata della corriera, un ragazzetto
relativamente ben vestito e accuratamente pettinato, attendeva il parroco per il consueto
saluto e gli ultimi consigli; ai suoi piedi vidi una vecchia valigia, piuttosto male in
arnese, alla cui incerta chiusura provvedeva rozzamente un grosso spago, più volte
annodato. Mi fermai allombra del grande albero secolare di fronte alla chiesa. Di
lì a poco la corriera partì. Don Augusto, diritto come una quercia, faceva con una mano
lenti cenni di saluto, accompagnati da un sorriso appena abbozzato, finché la corriera
scomparve dietro una curva lontana. "E un ragazzo timorato di Dio e
intelligente... come i suoi poveri genitori... grazie al Signore mi posso permettere... di
sopportare le poche spese del seminario", mi disse mentre, con le grandi mani,
stiracchiava la tonaca malandata, cercando invano di nascondere un troppo evidente
disagio.
Pensavo a questi episodi della vita di Don Augusto, allorché,
proveniente dalla scala della casa di riposo, un vociare andava diventando via via più
intenso e distinto; preceduti da un giovane prete, fresco di seminario con quel colletto
bianco sopra un abito nero irreprensibile, stavano giungendo numerosi ex-parrocchiani;
portavano fiori variopinti, in parte raccolti al paese per via della carta che li
proteggeva; con amorevole cura li deponevano intorno al defunto e, accarezzata la sua
tonaca, per una volta color nero-seppia, si facevano lentamente il segno della croce
fissando il volto famigliare; molte le guance solcate da lacrime.
Poco prima dellinizio della S. Messa, giunse un anziano signore,
dal volto intelligente e fiero; i presenti rispettosamente lo lasciarono passare,
tirandosi da parte e salutandolo; giunto ai piedi del vecchio amico, senza mostrare alcuna
emozione, prima lo fissò in volto, poi, piegato leggermente il capo, si irrigidì in un
attenti militare, mentre la mano destra istintivamente si chiuse, senza tuttavia alzarsi,
come una volta, in segno di saluto. Poco dopo mi si avvicinò, sempre in silenzio, mi
strinse la mano e si allontanò.
Alla presenza del Vescovo di La Spezia, la funzione funebre, in onore
di mio zio, Don Augusto, fu celebrata dal giovane prete, futuro parroco del suo paese
appenninico.